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In Grecia la Troika fissa anche la scadenza del latte fresco

La Grecia è un paese distrutto, si sa. Economicamente e moralmente. La sua democrazia è niente più che un rituale, stanco come i cittadini che ogni mattina non sanno più a che santo votarsi. Un paese sotto il ricatto del debito e dei signori-usurai della Troika, dove si celebra l’avanzo primario in crescita e si occultano gli svenimenti per fame dei bambini sui banchi di scuola.

In questo clima il parlamento, con una maggioranza molto risicata, ha approvato, su pressante richiesta di Bce, Ue ed FMI, un provvedimento riguardante i termini di scadenza del latte fresco. Per liberalizzare il settore e favorire i consumatori, si è detto. Di fatto si è sferrato un colpo mortale ad un comparto, quello del latte e della sua trasformazione, che da sempre, anche sul piano simbolico, è stato una colonna portante dell’economia ellenica.

Con l’adozione del provvedimento che allunga da 5 ad 11 giorni la scadenza per la definizione di “latte fresco” si sono aperte in sostanza le porte del mercato interno al latte proveniente da altri paesi europei, prevalentemente nordici, con in testa, manco a dirlo, la Germania.

Beninteso, stare in Europa significherebbe anche abbattere barriere monopolistiche, accettando le sfide che il processo di integrazione di fatto pone (Altri paesi, Italia compresa, si sono già adeguati sul latte alle direttive comunitarie). Il problema è che in questi anni, più che ad una equilibrata integrazione del mercato interno, si è assistito ad un processo di divaricazione tra un nord esportatore netto, in surplus, ed un sud sempre più importatore netto, in deficit e pesantemente indebitato.

Si è imposto, in altri termini, uno schema di tipo neocoloniale, nel quale i paesi della periferia sono stati ridotti, al costo di un indebitamento altissimo, a mercato di sbocco di prodotti – soprattutto ad alto valore aggiunto – provenienti dal centro a guida tedesca.

In un paese come la Grecia, che degli squilibri affermatisi in Europa è l’esempio più lampante, un provvedimento come quello appena adottato – c’è da giurarci – non potrà che avere conseguenze disastrose. E’ facilmente prevedibile, d’altro canto, che nei prossimi mesi la produzione locale di latte fresco sarà messa in ginocchio dalla concorrenza di produttori esteri, con effetti a catena – anch’essi largamente prevedibili – sui livelli già altissimi di disoccupazione (27,5%. nell’ultimo trimestre 2013).

Tutti sanno, nondimeno, che l’adozione di questa nuova misura, giunta dopo un lungo braccio di ferro tra il premier Samaras e Bruxelles, è l’ennesimo obolo che il governo Quisling di Atene ha dovuto pagare per ricevere l’altra tranche degli aiuti (10 miliardi di Euro) concordati con il secondo memorandum del 2012, che, tutto insieme, vale ben 130 miliardi di euro.

Lo schema è sempre lo stesso: “aiuti” in cambio di austerity e ristrutturazione funzionale dell’economia nell’interesse dei paesi creditori.

Nei fatti l’ultima conferma di come sia folle la spirale su cui il paese gira da tre anni a questa parte e di come sia improcrastinabile, ormai, rompere con la dipendenza dagli aiuti internazionali, se gli stessi continuano ad essere subordinati allo smantellamento sistematico dell’economia locale, oltre che dei diritti, tra cui quello ad esistere come popolo sovrano.

Si dirà: ma senza aiuti la Grecia fallisce. Bè, intanto dovremmo intenderci una volta per tutte su cosa significhi la parola “fallimento” per un paese, per uno stato, tenendo conto che il paese di cui stiamo parlando, dal punto di vista strettamente finanziario, ha già fatto bancarotta due anni fa, dichiarandosi insolvente e facendo accettare ai suoi creditori privati una svalutazione di circa il 53% dei bond che avevano in portafoglio (206 miliardi di euro su 365 di debito pubblico). In secondo luogo bisognerebbe chiedersi se il fallimento, nel caso di un paese, si misura con la malnutrizione dei bambini, con la disoccupazione alle stelle, con l’impennata dei suicidi, col numero delle aziende che chiudono, con la perdita di sovranità, oppure con l’incapacità (Concetto che meriterebbe un supplemento di approfondimento) di ripagare il “debito”, parola cui un tempo seguiva l’aggettivo “sovrano”.

Ragionandoci sopra non è difficile comprendere che nel primo caso il fallimento è concreto, conclamato, anche sul piano morale, mentre nel secondo non c’è niente di scontato e di definitivo. Basterebbe ricordare che il debito è lo strumento attraverso cui gli stati moderni hanno da sempre finanziato una parte del loro fabbisogno e che la solvibilità dello stesso dipende – per una parte – anche dal rapporto tra stati e banche centrali e dalla funzione di quest’ultime.

In Europa non è come in America, per farla breve. La Bce, a differenza della Fed, non può finanziare il debito degli stati. Questo spiega perché da noi il debito è un problema gigantesco ed in America no, ma anche perché un paese come la Grecia, per stare al tema, è costretto a bere latte tedesco in cambio di una nuova rata dei finanziamenti promessi per il suo …”salvataggio”.

 

di Luigi Pandolfi

Pubblicato anche su Huffingtonpost.it

Scritto da Redazione

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