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Mutamenti climatici, conflitti e responsabilità dei paesi industrializzati

di Fabrizio Battistelli

Alla conferenza Cop26 il Patto di Glasgow sul clima si è chiuso con un compromesso sull’uscita dalle fonti energetiche più inquinanti come il carbone. All’ultimo momento il compromesso è stato ulteriormente ridimensionato da un colpo di mano ad opera dell’India, appoggiata dalla Cina. E non solo: è molto affollata la compagnia dei produttori di idrocarburi, silenti ma operosi tra le quinte della conferenza, per svuotare l’evidenza che le emissioni di Co2 stanno compromettendo le sorti del pianeta. Dalla politicamente corretta Australia, che però è il massimo consumatore mondiale di carbone, all’Arabia Saudita incontrastata leader delle esportazioni petrolifere.
Le devastazioni dell’ambiente, il forsennato sfruttamento delle risorse, le conseguenze del riscaldamento climatico sono fattori di crisi destinati a far sentire sempre più spesso i loro effetti nefasti anche nell’ambito politico e strategico. Sarebbe un tragico errore liquidare la drammatica crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia come la semplice strumentalizzazione di un regime inefficiente e autoritario (quello di Lukashenko). Essa assomiglia piuttosto all’anticipazione di movimenti migratori provocati tanto dai conflitti quanto dal deterioramento ambientale, che fanno stimare a 150 milioni i profughi che dal bacino del Mediterraneo tenteranno di raggiungere l’Europa a metà del secolo.
Ma sarebbe semplicistico, e altamente iniquo, ridurre il problema alle responsabilità dei paesi che, come l’India, sono ancora a metà del guado nel processo di industrializzazione, o che, come la Cina, ne hanno appena tagliato il traguardo sulla base del collaudato metodo di assolutizzare gli obiettivi economici e ignorare quelli
ambientali. Anche la posizione morale dell’Occidente industriale e postindustriale è molto debole. Al di là dei tardivi scrupoli del premier britannico Boris Johnson, restano le gravi responsabilità ambientali del paese che, per primo al mondo con l’energia a vapore e la combustione del carbone ha sostituito alla green country la black country.
Così come l’impegno dell’ambientalista Kerry non fa dimenticare che gli Stati Uniti (oggi il secondo consumatore di idrocarburi al mondo) insiste a spaccare le rocce per estrarre petrolio, a costi proibitivi ma a prezzi di dumping per il consumo interno.
Era il 1820 quando l’economista Friedrich List – riflettendo su quello che era allora il ritardo dei paesi tedeschi nell’industrializzazione – annotò una fulminante critica del liberismo propugnato dalla Gran Bretagna. La polemica di questo paese contro il protezionismo come strategia per lo sviluppo economico assomigliava a quell’individuo
che, servitosi di una scala per raggiungere un piano alto, le diede un calcio per evitare che se ne servissero pure gli altri.
Ecco perché, anche in tema di tutela ambientale, la posizione di americani, britannici ed europei è poco credibile. Siamo noi tutti che dobbiamo accollarci lo sforzo economico richiesto dalla transizione verde, non solo per noi ma anche per i paesi di nuova o ancora parziale industrializzazione. Soltanto con stanziamenti finalmente adeguati nei
programmi Loss and Damage la posizione “ambientalista” dell’Unione Europea sarà moralmente credibile e avrà una probabilità di successo.

* Fabrizio Battistelli è direttore responsabile di IRIAD REVIEW, STUDI SULLA PACE E SUI CONFLITTI, Rivista mensile dell’Istituto di Ricerche Internazionali, Archivio Disarmo – IRIAD, riflessione tratta dal numero 11/2021

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