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Count down del summit tra Obama e il Papa: i conti aperti tra le due superpotenze a un anno dall’elezione di Bergoglio

Se il vento delle steppe ucraine ha riportato la guerra fredda tra Mosca e Washington, i fuochi di Kiev in compenso surriscaldano il rendez-vous di fine mese in Vaticano, dove il 27 marzo è di scena Obama. E se il G8 appare al momento congelato, il G2 tra la superpotenza temporale e quella spirituale smuove le braci e annuncia scintille. La Casa Bianca non ha dimenticato l’ondata planetaria di pubblica opinione sollevatagli contro dal Pontefice, alla stregua di un nuovo Mosè, sbarrando il passaggio del Mar Rosso alle navi USA, che inquadravano Damasco nel mirino dei propri Tomahawk. Né ha visto ergersi analogo scudo e spiegamento, stellare e mediatico, davanti alla flotta del Mar Nero, che stringe la Crimea nella morsa del suo abbraccio patriottico, agitando lo spettro balistico dei vettori intercontinentali Topol. Eppure il mondo rischia non meno e più di allora. Soprattutto l’Europa.

Sei mesi fa, nel primo Angelus di settembre, Bergoglio promise e promosse una mobilitazione generale di popoli e papi, facendo affacciare con sé alla finestra Roncalli e Wojtyla: profeta di navigli fermati in extremis sulla via dell’Avana, l’uno, e di grovigli non ancora sbrogliati tra il Tigri e l’Eufrate, l’altro. Sei mesi dopo, nel primo Angelus di marzo, al culmine della crisi e all’indomani dell’invasione della Crimea, si è espresso invece con toni dimessi e dimezzati, parlando di “incomprensioni” e “situazione delicata”, mentre nel caso della Siria non aveva esitato a evocare la “guerra” e “i drammatici sviluppi che si prospettano”.

Francesco d’Arabia, che tra le sabbie bibliche del Medio Oriente era partito in quarta con l’andatura spericolata di un rally e una maratona notturna di cinque ore, a Est del Dnepr ha mostrato di saper procedere a marce ridotte, con una dichiarazione di appena cinque righe, attivando l’ABS della frenata in meno spazio e montando pneumatici da neve, idonei alla scivolosità della strada e alle suscettibilità della storia. Già, la storia. Il primo trattato di “associazione” tra l’Ucraina e l’Europa non risale a quattro mesi, bensì a quattro secoli fa, con carattere di unzione sacra o peccato originale, a seconda dei punti di vista. Ed è tuttora operante, al contrario dell’accordo ritirato da Yanukovich il 21 novembre alla vigilia della firma e mai sottoscritto, innescando l’ira e l’insurrezione del Majdan.

Il 16 ottobre 1596 a Brest-Litovsk gli ucraini dell’Ovest, finiti sotto il dominio della Confederazione polacco-lituana e successivamente dell’impero asburgico, lasciarono l’ortodossia per riunirsi al cattolicesimo, dando luogo al fenomeno storico conosciuto come “uniatismo”. Una scelta obbligata però oculata. Un upgrade di cittadinanza per non restare subalterni nel nuovo insieme di appartenenza, ma non una omologazione. Sposando l’Occidente ma con l’abito nuziale dell’Oriente. Assumendone il credo e la devozione, ma conservando costumi e tradizioni, dal matrimonio del clero alla liturgia bizantino – slava. Qualcosa di molto simile a quello che sta per avvenire oggi sul piano economico attraverso il partenariato UE: l’integrazione dei mercati, cedendo all’attrazione fatale di Varsavia e collegandosi al trend ascendente della sua crescita industriale, senza tuttavia dovere officiare i riti della burocrazia di Bruxelles e praticare la castità monetaria imposta da Francoforte.

In modo analogo, ma sul versante opposto, al pari dell’associazione delle province occidentali al Papato, anche l’annessione spirituale di quelle orientali alla Russia si era già realizzata nel Cinquecento, per la precisione nel 1589, precedendo di quasi mezzo millennio lo zar Putin, con l’erezione del Patriarcato di Mosca e il trasferimento a Nord del primato appartenuto fino a quel momento alla metropolia di Kiev.

La costituzione di due “Ucraine”, dell’Est e dell’Ovest, affiliate rispettivamente all’Unione russa e all’Unione Europea, sancirebbe pertanto una nuova divisione del continente, su base questa volta religiosa e non più ideologica, facendo emergere l’antica faglia confessionale e facendo assurgere l’uniatismo, cioè l’incorporazione progressiva di pezzi dell’Oriente cristiano, da concetto religioso a categoria geopolitica, con una mutazione genetica non priva di conseguenze. Il successore di Pietro rischierebbe così di apparire nuovamente il “Patriarca d’Occidente”, titolo che gli fu astutamente attribuito nel 450 dall’imperatore bizantino, a fini politici e senza fondamenti teologici, e da cui Benedetto XVI si era liberato dopo 1466 anni, cancellandolo dall’annuario.

Come avevamo già osservato un mese fa l’Ucraina, che significa etimologicamente zona di confine, a un anno dal conclave si rivela dunque di nome e di fatto il vero confine del mondo per il Pontefice argentino. Il test più complicato e difficile. La sfida che avrebbe voluto evitare ma che invece è venuta fuori dall’urna della storia.

A un semestre dalla campagna trionfale di Damasco, Francesco ha sperimentato che, adeguandosi al poliedro, figura con cui ama disegnare la globalizzazione, la politica estera vaticana può assumere e mostrare aspetti fortemente differenziati, contrastanti e perfino polarizzati, a seconda delle circostanze. La differenza in questo caso rispetto alla Siria lo fa Putin, pronto a tramutarsi da odierno alleato in futuro avversario, procrastinando sine die il viaggio del Papa a Mosca e giocando di sponda con il Patriarca Ortodosso Kirill.

Perciò la Santa Sede ha adottato e adattato il pragmatismo della Ostpolitik, dal manuale di guida dei cardinali Casaroli e Silvestrini, maestri di gioventù del Segretario di Stato, Pietro Parolin. Diversamente da quanto accadde in settembre, il Pontefice non ha dunque lanciato nessun “grido”, né monito “ad alta voce”. In compenso ha però lasciato il microfono aperto al vibrante, brillante capo dei cattolici uniati, l’arcivescovo quarantenne Sviatoslav Shevciuk, che conosce bene Bergoglio, avendo trascorso tre anni a Buenos Aires, e che in una conferenza stampa del 25 febbraio, nella sede della Radio Vaticana, non ha usato prudenze verbali all’indirizzo dell’orso russo: “Non c’è alcun desiderio dall’interno di dividere il paese, ma forse qualcuno dall’esterno, vedendo che non può mangiare l’intera torta, ne vorrebbe almeno una parte”. Preoccupazione che il 5 marzo lo ha indotto a rivolgersi drammaticamente ai vertici dell’Unione Europea: “Ci appelliamo a voi con la richiesta ferma di non permettere la distruzione del cuore del continente europeo, dell’Ucraina”.

L’appello dell’arcivescovo è stato tuttavia riequilibrato di lì a quarantotto ore dal più stretto collaboratore del Papa: “Io credo che in Ucraina si può cercare una soluzione in cui ciascuna delle due parti possa salvaguardare i suoi interessi”, ha dichiarato Pietro Parolin, mandando al Cremlino un segnale rassicurante di non allineamento e auspicando un dialogo diretto con il Patriarcato ortodosso. Quando invitano a “costruire insieme il futuro della nazione”, sembra di capire che il Papa, e con lui la diplomazia ecclesiastica, ormai non paventino tanto il distacco formale o sostanziale della Crimea, che nel retaggio della geografia e dell’immaginario risulta in fondo più russa di quanto le Falkland siano argentine, ma temano soprattutto e cerchino di scongiurare la spaccatura dell’Ucraina continentale.

Visto da Roma, in definitiva, Vladimir Putin starà pure dal lato sbagliato della storia, riprendendo le parole di Obama. Tuttavia non è certo fuori dalla realtà, con riferimento al giudizio della Merkel. E lo è comunque assai meno dei suoi interlocutori europei. “Perché Santo Padre non parla mai d’Europa? Che cosa non la convince del disegno europeo?”, ha chiesto Ferruccio de Bortoli al termine della sua recente intervista, toccando forse il cuore del problema.

Wojtyla e Ratzinger hanno incarnato infatti, sotto il profilo geopolitico, due pontificati ancora fondamentalmente eurocentrici: evoluzioni paradossalmente opposte di un unico modello, spingendone rispettivamente al massimo l’estroflessione e l’introflessione. Giovanni Paolo II, in particolare, ha interpretato l’ultimo grande tentativo dell’Europa di uscire da se stessa ed estendere al mondo la sua influenza. Una visione universale che trovò in Gorbaciov e Kohl gli alfieri più determinati e determinanti: l’uno nella veste del vinto, l’altro del vincitore. Ma entrambi consapevoli e convinti del progetto.

Benedetto XVI invece ha rappresentato il ripiegamento del continente su se stesso, in una resa dei conti finale e in una guerra civile culturale, interna e identitaria, combattuta contro il relativismo. Francesco infine impersona la svolta del primo pontificato a tutti gli effetti extraeuropeo, per nascita ed elezione, origine e destinazione.

Il Papa sudamericano e transatlantico non ha l’Est ma l’Oriente, Medio ed Estremo, da Gerusalemme a Pechino, iscritto nella memoria e traiettoria del suo DNA gesuita e francescano, mentre si sente spaesato e spiazzato di fronte a una crisi che risucchia l’umanità nel passato, non la proietta nel futuro. La frontiera d’Europa per lui, come ha indicato chiaramente nella meta prescelta per il primo viaggio “intercontinentale”, non è la Crimea ma Lampedusa. Il Sud e non la Russia.

L’Ucraina di converso ai suoi occhi arretra e precipita il calendario non solo di un quarto di secolo, nel venticinquesimo della caduta del muro, ma giù fino al 1914, nel centenario della grande guerra, “celebrato” da referendum secessionisti che dopo il 16 marzo a Sebastopoli, sebbene in tutt’altro contesto, proseguiranno a Edimburgo e Barcellona il 18 settembre e 9 novembre. Un quadro che a Bergoglio, cresciuto nel mito della “Nación” e della “Patria Grande”, appare difficilmente comprensibile. Impressionante più che impressionista.

Putin, da parte sua, se possibile guarda più indietro ancora, con nostalgia ottocentesca del concerto delle potenze, aggiornato però su scala planetaria: una Santa Alleanza dove riconosce un posto al Papa, nuovo protagonista della scena internazionale, a condizione che la Chiesa desista però dall’intento di espandersi ed evangelizzare a Est, in terre che rispetto all’Europa, nella percezione del leader russo, conservano un primato di energie spirituali, non solo di materie prime.

A riprova del suo interesse e investimento politico, lo zar era giunto in Vaticano già il 25 novembre, anticipando di quattro mesi l’imperatore d’Occidente, Barack Obama, che ha invece atteso il rodaggio di un anno di pontificato. Un’apertura di credito che Francesco non ha voluto disperdere, rinunciando alla tentazione dell’appello spettacolare, che rivolto alla Russia equivarrebbe a un salto dal pinnacolo del tempio, per usare un’immagine quaresimale, facendo apparire il Papa pregiudizialmente schierato e gettando al vento il consenso acquisito fin qui tra gli Ortodossi.

Tale copione, studiato attentamente in ogni battuta, relega però in secondo piano l’America, con una nomination da non protagonista. Dal ritiro dei castelli romani, il Papa e il suo Segretario di Stato guardano quindi all’incontro imminente con l’imperatore, preparandosi a rendere ragione del grado diverso d’interventismo impiegato tra Damasco e Kiev. Che se a Mosca è risultato eloquente, a Washington è risuonato stridente.

A metà della Quaresima Barack Obama, campione di un mondo a sfera “dove non vi sono differenze tra un punto e l’altro”, si confronterà da vicino con la originalità del poliedro, “che riflette la confluenza di tutte la parzialità”, e mediterà il principio espresso nella Evangelii Gaudium, Magna Carta di Jorge Bergoglio, secondo cui “la realtà è superiore all’idea” e “tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”.

 di Piero Schiavazzi

da http://www.huffingtonpost.it/2014/03/11/count-down-del-summit-tra-obama-e-il-papa_n_4940785.html

Scritto da Redazione

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