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Le asimmetrie della zona euro. Ci vuole più Europa e meno Europa?

di Sergio Farris

Il processo di aggregazione dei paesi europei è il portato dell’ideologia del libero mercato, condotta ai suoi estremi. L’unificazione monetaria rappresenta l’apice di tale processo. 

La storia che ha condotto all’euro è una storia tutta incentrata su tentativi di ricostituire un accordo di cambio valutario dopo la cessazione del sistema di Bretton Woods, avvenuta nel 1971. Risiede alla sua base il postulato che – innanzitutto – l’integrazione dei mercati incentivi gli scambi internazionali e rechi vantaggi generalizzati; oltreciò, tale risultato si otterrebbe tramite l’abolizione di fattori di impedimento o di incertezza per gli scambi commerciali e la circolazione finanziaria. 

L’euro, in particolare, è il risultato di diverse esigenze, condensate in un compromesso: da un lato la Germania – da sempre titubante per via della propria concentrazione sul pericolo dell’inflazione -, la quale ha acconsentito all’istituzione della moneta unica dopo varie proposte avanzate nei decenni, da parte francese. Pare che, alla fine, la Germania abbia acconsentito all’istituzione della moneta unica con l’occhio rivolto alla possibilità di difendersi dalle svalutazioni competitive dei vicini e, si dice, anche per ottenere il via libera alla riunificazione. Dall’altro lato la Francia, con le sue mire rivolte a contenere il potere del marco e altri paesi – come l’Italia – preoccupati dell’inflazione, dovuta anche alle svalutazioni e alle fluttuazioni dei tassi di cambio (oltre che mossa dalla richiesta padronale di frenare la dinamica salariale). 

Ne è emerso un modello fondato sull’esasperazione della concorrenza e sull’ossessione per l’inflazione (i sistemi di cambio valutario fisso hanno infatti – quale costante giustificazione, il timore per l’inflazione e per i presunti danni che l’incertezza derivante dalle oscillazioni del cambio arrecherebbe alle relazioni di mercato). 

Nell’ambito del mercato comune è, come si sa, consentito il libero movimento di capitali, lavoro, beni e servizi. La politica monetaria è unica, è cioè valida per l’intera unione. L’eliminazione del rischio di cambio avrebbe così dovuto creare stabilità, convergenza e incremento dei commerci, in un contesto di totale liberalizzazione dei movimenti di capitale (già decisa alla fine degli anni ’80); ma la convergenza non si è avuta. In una temperie ideologica liberista, la cieca fiducia nel mercato l’ha fatta – alfine – da padrona. Alle classi dirigenti nazionali non è dispiaciuto, fra l’altro – come accennato – di poter disciplinare il lavoro ponendo le briglie alla dinamica retributiva – ossia riuscendo ad imporre salari reali fermi o calanti. 

Storia del Serpente e dello Sme 

Il percorso di integrazione europea comincia nell’immediato secondo dopoguerra. In quel periodo, la politica internazionale era caratterizzata dal sistema bipolare, che vedeva opposti gli Stati Uniti d’America all’Unione Sovietica. Gli stati europei erano costretti a muoversi entro le coordinate fissate dalle due superpotenze. La parte europea occidentale, sotto l’influenza americana, sperimenta allora una traiettoria di cooperazione fra i suoi stati – ai quali venivano concessi gli aiuti per la ricostruzione riconducibili al noto “Piano Marshall”. Si tratta di un percorso di cooperazione che denotava una funzione antisovietica. Lo sviluppo dei paesi europei occidentali avrebbe contribuito a consolidare la strategia statunitense di difesa nei confronti della sfida comunista. La fase storica fra il 1945 e il 1954 ha come momenti preminenti quelli relativi all’avvio dell’integrazione economica – sotto l’impulso del Piano Marshall – mentre resta in ombra la finalità dell’integrazione politica. Nel 1948 nasce l’Organizzazione europea di cooperazione economica, con l’intento di dare avvio alla liberalizzazione degli scambi ed alla cooperazione monetaria. Nel 1951 nasce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (la Ceca, formata da sei paesi membri), primo embrione di comunità alla quale veniva attribuita la potestà di emanare atti efficaci all’interno degli stati aderenti. Nel 1954, invece, non trova seguito il proposito di costituire la Cep, ossia la Comunità politica europea. Nel 1957 vedono la luce la Cee (Comunità economica europea) e la Comunità europea per l’energia atomica (Euratom). Obiettivo della Cee era l’eliminazione graduale degli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti industriali e agricoli, dei servizi, delle persone e dei capitali. Si trattava, cioè, di un’Unione doganale, che verrà completata nel 1968. La crescita economica di quegli anni, tuttavia, è stata caratterizzata da varie distorsioni, come il divario fra regioni sviluppate del centro Europa e regioni periferiche, le emigrazioni di massa, le concentrazioni delle popolazioni nei centri urbani. Lo sviluppo economico europeo è stato lasciato – già allora – al gioco del mercato e delle imprese transnazionali. Il che non poteva che generare una crescita contraddittoria. Con il Trattato di Roma del 1957 – che verrà nei decenni successivi integrato da altri trattati – si forma la base dell’Unione europea. 

Dunque, il processo di integrazione economica e monetaria europea risale agli anni ’50 del novecento, ma gli anni cruciali sono stati quelli seguenti alla firma del Trattato di Maastricht nel 1992 – col quale è stato definito il percorso per l’implementazione dell’Unione economica e valutaria. Fino ad allora permanevano controlli sui movimenti di persone, attività e transazioni fra residenti nei vari paesi europei. Uno degli inconvenienti generalmente citati, a proposito di tale situazione, è l’incertezza derivante dall’impiego – nelle transazioni – di diverse divise e dalla vigenza di diversi tassi di cambio. Rimosso questo inconveniente, però, si è andati incontro a un costo – probabilmente più ingente – derivante dall’adozione della moneta unica: la perdita dell’autonomia nella gestione della moneta e della politica monetaria (la fissazione del tasso d’interesse). Ciò pone limiti anche alla gestione della politica fiscale. Va inoltre aggiunto il costo dell’azzeramento di politiche intracomunitarie del tasso di cambio e di svalutazioni competitive per attenuare le recessioni. La questione è: i benefici che ci si attendeva dalla moneta unica sono stati in grado di compensare i costi? 

La grande preoccupazione all’epoca dell’istituzione dell’Ume era la fluttuazione dei cambi. Questo anche in ragione del grado di apertura commerciale degli stati europei. In un contesto di liberalizzazione dei mercati, il mercato unico – si reputava – non sarebbe stato tale senza una moneta comune a suo complemento. 

La storia dell’unificazione del mercato europeo è riassumibile in tre fasi: 1) dagli anni ’50 – in particolare dal Trattato di Roma – fino al 1970; 2) dal Serpente monetario fino allo Sme, nel 1979; 3) dallo Sme all’Atto unico del 1986, fino al Trattato di Maastricht del 1992, con l’introduzione dell’euro nel 1999 (materialmente circolante dal 2002). Dopo il 1971, ossia dopo la fine del sistema di Bretton Woods (il sistema monetario internazionale vigente dal secondo dopoguerra), l’ampliamento dei margini di oscillazione delle valute internazionali nei confronti del dollaro Usa passò da più o meno 1% a più o meno 2,25% (una banda del 4,5%). La banda di fluttuazione fra due valute arrivava quindi al 9% (il doppio rispetto a quella con il dollaro). Ciò era considerato un margine eccessivo, così le autorità monetarie europee decisero di riportare il cambio massimo fra due valute europee al limite vigente con il dollaro, cioè 4,5% (1,125% in più o in meno con il dollaro; più o meno 2,25% fra le valute europee). Il margine di oscillazione del 2,25% era il cosiddetto Serpente monetario, mentre quello nei confronti del dollaro era detta il Serpente nel Tunnel. Questo richiedeva un coordinamento delle politiche comunitarie e interventi di aiuto nel caso di problemi delle bilance dei pagamenti (situazioni di squilibrio in cui un paese registra un eccesso di flussi finanziari e/o commerciali in ingresso rispetto ai flussi in uscita). Il che non avvenne, e si verificarono varie crisi valutarie. Con la svalutazione del dollaro Usa del dopo Bretton Woods e con la crisi petrolifera emersero difficoltà di coordinamento fra i paesi del nucleo forte europeo e quelli più deboli. Il marco tedesco si apprezzava. Questo obbligava i restanti paesi della Cee – ormai in deficit – a notevoli sforzi per cercare di rimanere all’interno del Serpente. Francia, Italia, Gran Bretagna e Irlanda non riuscivano a mantenere il tasso di cambio entro il limite stabilito a meno che non avessero attuato politiche restrittive al fine di attirare flussi di prestiti. 

Nel Serpente monetario restarono, così, soltanto i paesi legati alla Germania (Olanda, Belgio, Lussemburgo), quelli cioè in grado di adeguarsi alle decisioni della Bundesbank (la Banca centrale tedesca). Nel 1976, ai paesi aderenti al Fmi venne riconosciuta la facoltà di scelta del sistema di cambio e dei margini di oscillazione. In Europa si pensò, allora, all’istituzione di un nuovo accordo di cambio, lo Sme. Il Sistema monetario europeo – che fu un’iniziativa franco/tedesca – entrò in vigore nel marzo 1979. Lo scopo era la creazione di una zona di stabilità monetaria, caratterizzata da politiche economiche coordinate e da un margine di oscillazione delle divise dei 9 paesi aderenti di più o meno 2,25% rispetto all’Ecu (European currency union), una valuta paniere di riferimento (mentre per ogni moneta nazionale era concesso al tasso di cambio di fluttuare liberamente nei confronti di ogni altra valuta del mondo). All’interno dello Sme i cambi erano manovrabili, dato che le banche centrali dovevano intervenire sul mercato valutario per evitare che la moneta si muovesse oltre i limiti stabiliti (il margine accordato all’Italia, fra l’altro, in una fase iniziale era più ampio: 6%; in seguito, il paese entrò nella cosiddetta “banda ristretta”). Diversamente dal Serpente, lo Sme non era solo un accordo di cambio: contemplava infatti anche l’azione coordinata delle politiche macroeconomiche, nonchè forme di assistenza finanziaria reciproca tramite un Fondo (il Fondo monetario europeo). Vi era sì una unità di conto, l’Ecu – un paniere di valute comunitarie – verso la quale i paesi aderenti avevano un tasso centrale (una dichiarazione di parità rispetto all’Ecu, da cui derivava la griglia delle parità bilaterali con il margine del 2,25% in più o in meno); ma era anche previsto – all’occorrenza – l’intervento delle banche centrali nazionali per riportare la parità. Era previsto – in proposito – un indicatore di divergenza che segnalava l’eventuale andamento difforme di una valuta rispetto alla media comunitaria. Inoltre, nel caso di squilibri persistenti nei conti con l’estero, la parità centrale poteva essere rivista di concerto fra i governi. Dovevano infine intervenire meccanismi di facilitazioni del credito a breve e medio termine. Le banche centrali potevano cioè concedere assistenza al paese in difficoltà offrendo la valuta necessaria a ricondurre il cambio verso la parità centrale. Il trasferimento avveniva fra le banche centrali e il rimborso aveva luogo non oltre 45 giorni dopo la fine del mese dell’intervento. Il sostegno durava tre mesi ed era rinnovabile due volte, con l’impegno all’adozione di misure compatibili con il mantenimento dell’equilibrio interno e esterno. La quantità di Ecu a disposizione dei paesi veniva creata tramite trasferimenti al Fondo europeo del 20% delle disponibilità auree e di dollari delle banche centrali. 

Lo scopo dello Sme era ridurre l’instabilità monetaria e favorire gli scambi infracomunitari, gli investimenti e la crescita. Nei primi anni vi sono state varie crisi e disallineamenti. Poi, vi è stata una relativa stabilizzazione e una certa convergenza dei tassi di inflazione. L’imperativo del sistema era infatti abbattere l’inflazione nei paesi aderenti allo Sme, il che avrebbe condotto all’uniformità dei tassi di interesse (per un certo periodo ciò è avvenuto, come avverrà anche durante i primi anni di circolazione dell’euro). Non vi era una moneta di riferimento, ma, in effetti, tale ruolo veniva ricoperto dal marco tedesco. La politica della Bundesbank – di orientamento antinflazionista – era quella maggiormente influente. Il sistema ha retto fino alla crisi del 1992, che ha portato lo Sme alla dissoluzione. Ancora una volta, gli obiettivi della Bundesbank – nella contingenza della riunificazione tedesca, che aveva condotto l’istituto a un repentino e consistente rialzo dei tassi d’interesse – non erano compatibili con le esigenze degli altri paesi dello Sme. Inoltre, mancarono le forme di aiuto prima citate (la Bundesbank non intervenne per difendere la lira dalla speculazione). Uno scenario che, drammaticamente, si ripeterà nel 2010 – 2011, con i paesi colpiti dalla crisi lasciati inizialmente soli (salvo poi, subire dure condizionalità in cambio degli aiuti). 

Dunque, alla fine, dopo la parziale riuscita dello Sme, si è assistito al suo crollo nell’anno 1992. Constatato che lo Sme non ha funzionato, perchè insistere in una sorta di accanimento “terapeutico”? Perchè legarsi in misura ancora maggiore, quasi indissolubile, con l’euro – la moneta unica che ha amplificato i difetti delle costruzioni monetarie pregresse? Le ragioni possono essere solo politiche, più specificamente riconducibili alla categoria di rapporti sociali che si è inteso instaurare (di stampo conservatore). 

Perché i cambi fissi? 

Ci si può, per iniziare, interrogare sulle conseguenze di una scelta in favore di un sistema di cambi fissi o di cambi flessibili (esiste anche il sistema misto). L’introduzione di una stessa moneta in diversi paesi è la forma più rigida di fissazione del cambio. 

Si può ricordare, intanto, che nel regime di cambi fissi la politica fiscale ha piena efficacia nel controllo della domanda globale e quindi dell’equilibrio interno, mentre non è altrettanto efficace la politica monetaria, che viene impiegata per il raggiungimento dell’equilibrio esterno (1). 

Affermano i sostenitori dei cambi fissi: i cambi variabili introducono un elemento di incertezza in più. Si ridurrebbe il volume degli scambi e degli investimenti internazionali, portando a forme destabilizzanti di speculazione e causando inflazione. Si tratta, quindi, di un’impostazione pro mercato, e si basa sulla presunta efficienza di esso. Si creerebbe stabilità nella finanza e negli scambi, forme stabilizzanti di speculazione (e non destabilizzanti) e più disciplina dal lato dei prezzi – ossia meno inflazione. (Abbiamo constatato, in realtà, che il pericolo della speculazione – oltre a non essere scongiurato – nell’eurozona non è particolarmente stabilizzante). 

Che cosa avviene, invece, in un regime di cambi flessibili? 

Dice la teoria: in questo regime l’equilibrio esterno viene raggiunto automaticamente: la bilancia dei pagamenti si trova continuamente in equilibrio grazie alle fluttuazioni dei cambi che si verificano in corrispondenza delle variazioni della domanda e dell’offerta di valuta. In questo modo viene meno uno degli obiettivi da raggiungere, cioè quello dell’equilibrio esterno. Rimane invece – valido – l’obiettivo dell’equilibrio interno, vale a dire un elevato livello di occupazione – che si può raggiungere attraverso la politica monetaria in maniera più efficace di quanto avvenga con la politica fiscale (2). 

I sostenitori dei cambi flessibili dicono che tale sistema è più efficiente perchè consente di correggere eventuali squilibri della bilancia dei pagamenti. Inoltre, essendo consentito il perseguimento meccanico dell’equilibrio esterno, avere un obiettivo in meno rende possibile il raggiungimento di quello interno e di altri obiettivi macroeconomici. 

La volatilità del tasso di cambio negli anni ’70 e il disordine globale che ha contrassegnato quel periodo ha fatto pendere, negli anni a seguire, la bilancia delle preferenze teoriche verso il sistema a cambi fissi (preferito da banchieri e affaristi) o, al limite, manovrati. 

E’ probabile, secondo l’economia standard, che essendo i prezzi vischiosi verso il basso, i cambi flessibili generino inflazione. La svalutazione farebbe aumentare i prezzi, la rivalutazione no. Forse l’inflazione è più elevata in un regime di cambi flessibili, tuttavia i cambi si possono controllare e, difatti, negli anni ’70 i cambi sono stati di solito controllati. L’inflazione in quegli anni era dovuta al prezzo del petrolio – non tanto al sistema dei cambi flessibili – ed alla produzione di moneta in molti paesi, primo fra tutti gli Usa. 

I risultati economici sono stati di gran lunga migliori negli anni ’60 – in vigenza del sistema di cambi fissi ma aggiustabili concordato a Bretton Woods – anzichè negli ’80 e ’90. L’inflazione era leggermente più alta, ma il Pil molto migliore e la disoccupazione era piuttosto contenuta. Inoltre, a Bretton Woods erano state previste varie forme di soccorso da riservare ai paesi che si fossero venuti a trovare in cattive acque. 

Poi, durante gli anni ’90, a tenere bassa l’inflazione ha pensato la globalizzazione. In ogni caso, infine, non si può imputare al solo regime monetario la prestazione economica complessiva: occorre avere riguardo anche al progresso tecnico e al mercato del lavoro. Cambi fluttuanti, comunque, consentono una scelta interna fra inflazione e disoccupazione, quindi una certa agibilità da parte delle autorità responsabili della politica economica, la quale è praticamente inibita all’interno dello spazio dell’euro – una limitazione che pesa come un macigno. 

Pare, in generale, che i cambi fissi siano preferibili per una piccola economia aperta, nella quale sono prevalenti rapporti commerciali con uno o pochi paesi importanti e la quale sia soggetta a disturbi – di solito – monetari. Cambi flessibili pare siano meglio per una grossa economia (relativamente chiusa), con flussi di scambi diversificati, con un trade/off inflazione – disoccupazione differente rispetto a quello dei partners commerciali e che risulta soggetta a shock di origine reale, nonchè prevalentemente esterni. Qui, la manovra del cambio può sortire un effetto positivo, un valido aiuto. 

Non è da trascurare, poi, il fatto che, specialmente in presenza di paesi che hanno regolari rapporti di scambio e di cooperazione – come nello spazio dell’euro – se la bilancia dei pagamenti di un paese è in avanzo, quella dei paesi partner si trova in disavanzo, con le implicazioni che un prolungato disavanzo della bilancia dei pagamenti provoca sui secondi, cioè gravi ripercussioni sulla quantità di moneta in circolazione, sui prezzi interni e con le relative conseguenze sul livello del reddito nazionale e sull’occupazione. 

Per quanto riguarda gli aspetti di politica nazionale, si deve ricordare che il sistema a cambi fissi non permette ai governi un completo controllo dei fenomeni economici, e di quelli monetari in particolare. Reddito ed occupazione sono variabili che dipendono in buona parte dalla bilancia dei pagamenti al cui controllo il governo (o la classe politica) non può rinunciare, soprattutto quando si manifestano problemi di disoccupazione (o di inflazione). Ma questo è proprio quello che succede nella zona dell’euro. 

Se i capitali transfrontalieri sono liberi di fluire, il governo nazionale può conservare la propria politica monetaria solo se il cambio è libero di oscillare (si può mettere in pratica una politica monetaria espansiva solo se si è disposti a lasciar deprezzare la valuta). 

Come anticipato, nel regime di cambi fissi la politica fiscale ha piena efficacia nel controllo della domanda globale e quindi dell’equilibrio interno, mentre non è altrettanto efficace la politica monetaria, che viene impiegata per il raggiungimento dell’equilibrio esterno. Quindi, sarebbe opportuno non rinunciare alla politica fiscale. Il che è proprio ciò che avviene sotto la disciplina dell’euro. Politiche deflazionistiche mirate al mantenimento di una parità valutaria fissa – o dettate dall’appartenenza a un’area monetaria comune -, anche a fronte di disavanzi commmerciali o a deflussi di capitale, possono essere dolorose per i ceti sociali più poveri, che vedono contrarsi i loro salari e innalzarsi la disoccupazione. La politica monetaria dovrebbe essere indirizzata a obiettivi interni – come l’occupazione – invece che esterni, come la preservazione della parità valutaria. Preso atto della (discutibile) scelta politica ormai compiuta, si può passare a cercare di delineare le caratteristiche essenziali dell’euro. 

L’euro: politica monetaria e politica fiscale 

La politica della Bce, la banca centrale indipendente dell’Unione monetaria europea, fissa un tasso d’interesse unico per l’intera eurozona. Il bilancio pubblico dell’area comune è pari ad appena l’1% del Pil; è da segnalare, poi, che i singoli stati soggiaciono ai noti vincoli fiscali – fissati nei Trattati. Il mandato e la “governance” della Bce sono adeguate al fine di assicurare all’intera eurozona prosperità e sviluppo? Pare di no. 

Il ruolo della Bce è incentrato sull’inflazione. 

Oltre ai limiti istituzionali di cui si dirà, le azioni della Bce sono sembrate, anche durante la crisi, orientate e condizionate dagli interessi delle banche private e degli attori dei mercati finanziari, piuttosto che dagli interessi dei cittadini comuni. Tassi di disoccupazione anche elevati vengono subordinati all’obiettivo della stabilità dei prezzi, a parametri come i tassi di interesse o, ancora, ai salvataggi bancari privati. 

Se le economie di un’unione valutaria sono abbastanza simili, una stessa moneta potrebbe essere meno problematica di quanto è, in effetti, l’euro. Ma le economie dei 19 stati dell’eurozona hanno caratteristiche diverse. Il valore dell’euro in un dato momento può recare dei benefici per alcuni paesi ma può essere inadeguato per altri. Inoltre, un unico tasso di interesse di riferimento, valido per 19 paesi, può essere di stimolo per alcuni stati ma può essere penalizzante per altri. Una crisi economica può causare effetti diversi, colpendo i vari paesi membri e provocandovi conseguenze diverse. 

La separazione della politica monetaria rispetto alla politica fiscale – la Bce è indipendente dalla politica – è un caposaldo del liberismo. L’ipotesi è che il finanziamento dei governi da parte della banca centrale si traduca immancabilmente in un alto tasso di inflazione. Ma ciò spesso comporta che, in corrispondenza di un dato tasso di inflazione/obiettivo, fissato dalla banca centrale, la disoccupazione si attesti a un livello inaccettabile. Allora, i sostenitori del liberismo parlano di tasso ‘naturale’ di disoccupazione (anche se, in realtà, questo tasso naturale appare più una costruzione fantasmatica che reale). Un elevato tasso di disoccupazione ha per conseguenza salari minori. Quindi, un certo obiettivo di inflazione invece che un altro, è una scelta politica che può accontentare la rendita finanziaria che riscuotono gli obbligazionisti nei mercati finanziari ma che può scontentare i percettori di reddito da lavoro. Inoltre, nell’ambito della zona euro, un certo livello di inflazione – tenuta bassa – può avere conseguenze diverse in un paese piuttosto che in un altro. Un paese che necessita di sviluppo – come un paese periferico dell’eurozona – avrà un trade-off fra inflazione e disoccupazione diverso rispetto a un paese che presenta una condizione migliore. Perciò, in corrispondenza di un dato tasso di inflazione/obiettivo, quello fissato dalla banca centrale per tutta l’eurozona, in alcuni paesi la disoccupazione può facilmente collocarsi – e a lungo – su un livello eccessivo. 

Secondo gli architetti dell’euro, il mercato avrebbe dovuto provvedere a una crescita armonica. Ma questo non si è avverato. La Bce ha ricevuto il suo mandato sull’assunto teorico che il controllo dell’inflazione – tenuta bassa e stabile – avrebbe implicato risultati ottimali per tutte le altre grandezze macroeconomiche. Ma, come detto, è più probabile che tale mandato determini piuttosto differenziali – anche elevati – fra produzione effettiva e produzione potenziale nei diversi paesi. Oltre a questo limite, va rilevato che il ruolo della Bce è congegnato affinchè essa aumenti i tassi di interesse, paventando il pericolo di un’imminente inflazione, ogni volta che i salari accennino ad incrementare. 

La politica fiscale 

A questo punto si può pensare: d’accordo, la decisione di vincolarsi rigidamente con un’unica moneta e con la rinuncia alla banca centrale, assunta da un gruppo di paesi fra loro eterogenei per struttura e grado di sviluppo, non è la più appropriata. Tuttavia, qualcosa può ancora essere fatto: si può ricorrere agli strumenti fiscali. In fondo, se si considera la moneta unica quale mezzo di scambio per facilitare le transazioni, altre istituzioni possono esserle affiancate al fine di renderla funzionale. 

Invece, ai paesi aderenti all’euro è imposto un rigido regime fiscale. 

La teoria del libero mercato – posizionata a fondamento dell’euro – non contempla situazioni di crisi, ma prevede situazioni di pressochè costante piena occupazione e di distribuzione ottimale del reddito (da cui l’accento posto sul pericolo di inflazione). 

Tuttavia, nella realtà le crisi sono piuttosto ricorrenti. 

Allora ci si è chiesto: cosa accade se, in conseguenza di uno shock, cala la domanda in uno o più paesi impegnati nell’appartenenza a un’area valutaria (come l’euro)? In questo paese si genera un aumento della disoccupazione e delle spese per i sussidi; cala il reddito e calano le entrate fiscali; aumenta il deficit pubblico. Alla politica fiscale dovrebbe, quindi, essere riservato un proprio importante ruolo. 

Se l’area monetaria comune può contare su un consistente bilancio centralizzato di livello sovranazionale, all’autorità centrale è demandato il compito di riscuotere imposte sul reddito e di gestire il sistema di sicurezza sociale nell’ambito comunitario. Grazie alla centralizzazione si provvede quindi all’aggiustamento (è difficile che uno shock colpisca tutti i paesi dell’area nello stesso modo). In questo caso si può procedere a una stabilizzazione fiscale, redistribuendo parte del reddito a favore delle regioni in difficoltà e attutendo gli effetti della crisi. 

Se invece il bilancio non è oggetto di centralizzazione, i paesi maggiormente colpiti dalla crisi devono rivolgersi al mercato dei prestiti. Ciò comporta un’ipoteca futura, un vincolo estero per la manovrabilità fiscale che non sussisterebbe in presenza di un bilancio comunitario funzionante. In alternativa, se non si vuole istituire un buon bilancio comunitario a cui demandare l’assorbimento degli shocks (perchè manca la necessaria solidarietà fra i paesi, come avviene nella zona euro), la politica fiscale dovrebbe rimanere relativamente libera a livello di singolo stato. Qualora insorga la necessità, dovrebbe essere prevista, dove necessario, perlomeno la possibilità di condurre una politica espansiva legata agli stabilizzatori di bilancio. (Il che, abbiamo recentemente constatato, è molto difficile che avvenga nell’euro). 

In sintesi, l’euro non prevede alcuno degli strumenti di stabilizzazione che, la stessa teoria – più o meno – ortodossa ha enucleato. Peggio che mai, i padri dell’euro, oltre ad avere concepito una moneta unica non affiancata dalle istituzioni che potrebbero renderla meno severa, hanno pensato di sottoporre la politica fiscale nazionale a vincoli stringenti – addirittura asfissianti – come quelli contenuti nei vari Trattati (Maastricht, Patto di stabilità). I loro successori, nel bel mezzo della crisi (2012) – con l’attenzione rivolta al salvataggio dei crediti degli istituti finanziari dei paesi centrali – hanno pensato di rendere tali limiti ancora più vincolanti (Fiscal Compact), aggravando la recessione con una stretta prociclica. 

Il quadro che risulta, è quello di un “governo delle regole” incentrate sul rispetto di determinati criteri fiscali (detti – ironia della sorte – di convergenza). Essi stabiliscono precisi tetti al rapporto deficit/pil ed al rapporto debito/pil. Il loro fine è, in realtà, evitare a qualunque costo qualsiasi esternalità o condivisione dei rischi ed evitare eventuali trasferimenti di risorse fra stati, come (a dispetto della retorica europeista) la recente crisi dell’euro ha dimostrato. Essendo questa la cornice di riferimento, ci si può chiedere quali sono stati gli effetti di queste scelte. 

Crisi. Esuberanza e collasso del mercato 

L’euro è stato il più ampio tentativo al mondo di costituzione di un’area valutaria – e di libero scambio. Tale tentativo affonda le sue motivazioni nella teoria del libero mercato, secondo cui la prosperità dei partecipanti dipenderebbe sostanzialmente dalla vastità del mercato, dal grado di apertura dell’economia o di rimozione di barriere e ostacoli al commercio. Va osservato, però, che ai tempi in cui questa teoria aveva trovato concezione e affermazione, non esistevano la supremazia e il rilievo attuale del mercato finanziario. 

Come accennato, le teorie in voga ai tempi della concezione dell’euro presuppongono che i mercati funzionino in modo ottimale. Di risulta, l’eurozona non sarebbe dovuta incorrere in situazioni di crisi. Avrebbe dovuto garantire sempre la piena occupazione (al limite – presunto – oltre il quale scatterebbe automaticamente l’inflazione) e l’equilibrio delle bilance dei pagamenti. Ma i mercati sono tutt’altro che perfetti, e la crisi è sopraggiunta ben presto. 

Infatti, la libera mobilità dei capitali infrazona non ha sortito l’effetto di allocare gli investimenti in modo appropriato, con i paesi periferici in costante disavanzo delle partite correnti. Ciò anche a causa del modello tedesco, ostinatamente orientato alle esportazioni. Il cronico surplus tedesco comporta l’esigenza, per il sistema bancario del paese, di prestare fondi ai paesi in deficit, riciclando il risparmio. Ma quando sopraggiunge una crisi si interrompe il flusso dei prestiti e i paesi indebitati non possono fare affidamento su una politica economica propria per fronteggiarla. 

Le scelte dei privati nel mercato sono un elemento che avrebbe dovuto generare simmetria e convergenza fra i paesi dell’eurozona. Ma è andata diversamente. Ad esempio, negli anni duemila si è venuta a creare una condizione di credito facile spinta dagli operatori finanziari privati. I tassi di interesse erano bassi. Molti prestiti finivano con l’andare a finanziare l’acquisto di immobili, anche a scopo speculativo – soprattutto nei paesi periferici. I relativi prezzi salivano a dismisura, e le banche pensavano di poter concedere ancora più prestiti grazie all’aumento di valore delle garanzie reali – gli immobili stessi; allora i costruttori si precipitavano nel mercato e si erigevano sempre nuovi edifici. Ma quando le cose seguono questo canovaccio, a un certo punto gli immobili sul mercato risultano troppi e non si riesce a venderli o affittarli. Allora, gli impresari cominciano a non restituire i prestiti alle scadenze pattuite e la bolla creditizia comincia a cedere. Secondo la teoria ortodossa, i prezzi inviano segnali di scarsità relativa al mercato. Invece i prezzi, nonostante l’offerta ridondante, seguitavano ad incrementare. Inoltre, in tali fasi di euforia – come avviene anche nel mercato borsistico – a nessuno viene in mente di porre un freno alle proprie aspettative entusiastiche. 

Lo spazio liberalizzato dell’euro ha amplificato questo tipo di rischio. Ma, purtroppo, quando il collasso è ineluttabilmente arrivato, le istituzioni politiche hanno imputato tutta la colpa ai paesi che si erano indebitati verso l’estero – in particolare verso i sistemi bancari di Francia e Germania – condannandoli all’austerità. (La quale ha aggravato le divergenze in seno all’eurozona). I creditori si sono imposti sui debitori. Per giustificare i tagli alla spesa pubblica – che colpiscono i ceti più svantaggiati – una crisi dovuta a squilibri delle bilance dei pagamenti è stata presentata come crisi dei debito pubblico (anche se la maggior parte dei paesi non aveva, inizialmente, problemi di debito pubblico). 

Al punto 

Infine, bisogna chiedersi: visto che l’area dell’euro, per le caratteristiche illustrate, è vulnerabile e soggetta a crisi delle bilance dei pagamenti – tipiche dei sistemi liberalizzati -, perchè la risposta delle autorità europee – improntata all’imposizione di inasprimenti fiscali, liberalizzazioni e riforme strutturali – è stata del tipo di quella che abbiamo conosciuto? 

Con l’adesione all’euro i paesi membri – come già visto – hanno perso due strumenti di aggiustamento impiegabili per sanare gli squilibri infracomunitari: la flessibilità del tasso di cambio e il controllo del tasso di interesse. Ne è rimasto uno: la svalutazione interna (o deflazione). Su questa base, ai paesi rei di prodigalità sono state imposte le riforme – cosiddette strutturali. Ma – da un punto di vista generale – è stato inutile raccomandare riforme strutturali nel senso inteso dalle istituzioni europee: queste riforme, negli intenti dei promotori, sono riforme del lato dell’offerta delle economie, che non colgono i problemi che sono stati all’origine della crisi. Come le riforme del mercato del lavoro, che si vorrebbe sempre più flessibile; il che raffigura soltanto un modo per ridurre i salari dei lavoratori, i soggetti già più colpiti dalla crisi. Ma nel pieno di una crisi come quella del 2011-2012, il problema non è l’offerta, è la carenza di domanda aggregata. Riforme come queste, che per indebolire i sindacati dei lavoratori hanno visto modifiche a livello nazionale dei sistemi di relazioni contrattuali e del diritto del lavoro, non hanno fatto altro che infiacchire la domanda e accrescere le ineguaglianze sociali. Certo, in tal modo si ripone ogni aspettativa di crescita sul settore delle esportazioni, ma l’andamento delle esportazioni è fortemente sensibile all’andamento del ciclo internazionale – ovvero alla disponibilità, da parte di altri paesi “di peso” (come gli Usa) a farsi carico di politiche espansive e, magari, indebitarsi. Il che non è mai certo e può sortire benefici insufficienti (come per l’Italia è stato). 

Inoltre, i paesi che prima dello scoppio della crisi avevano ricevuto ingenti flussi di risorse ma non avevano comunque recuperato la distanza tecnologica dei loro apparati produttivi nei confronti della Germania, con l’applicazione della punitiva austerità hanno visto allontanarsi ulteriormente la possibilità di convergere verso le condizioni economiche del centro del continente. Il loro tasso di disoccupazione è rimasto drammaticamente elevato anche durante la fase di tenue ripresa (che, fra l’altro, è oggi nuovamente a rischio). Molti, anche laureati, sono emigrati. L’austerità, ossia il sacrificio applicato ai lavoratori, è servita a ridurre le importazioni e l’ingresso di nuovi prestiti nei paesi coinvolti – e per tale via – a ristabilire l’equilibrio delle bilance dei pagamenti (che avrebbe potuto avere luogo, invece, con una maggiore rilassatezza fiscale in patria tedesca). Ma tutto questo non lascia sperare nulla di buono per la maggior parte della popolazione lavoratrice. Non vi sono prospettive di un miglioramento prossimo venturo. Il settore finanziario è stato salvato, ma da ciò non possono derivare vantaggi concreti per la maggior parte della gente comune. 

Anche l’insistenza per le riforme dirette all’infinita liberalizzazione dei mercati porta a conclusioni critiche: con tale intento le istituzioni europee intendono riferirsi a una maggiore apertura verso le multinazionali di altri paesi. Aumentano così i profitti di queste ultime e, quando va bene, le popolazioni locali ottengono leggere riduzioni di prezzo. Ma i profitti si riversano all’estero e questo peggiora il saldo della bilancia dei pagamenti. Cala la spesa per i prodotti interni, con le note conseguenze per l’occupazione e per il gettito fiscale – e con conseguente nuova austerità per i paesi già penalizzati. 

In una regione comune, in cui i creditori hanno imposto la loro disciplina ai debitori, non potevano infine mancare le raccomandazioni – all’indirizzo dei secondi – a privatizzare beni e aziende pubbliche (naturalmente, a vantaggio soprattutto del centro Europa, campione del risparmio). Un altro tassello di un mosaico destinato ad essere sempre più difforme. L’euro, dunque, ha generato asimmetrie fra i paesi membri e all’interno delle classi sociali dei paesi membri. 

Ciò ha aggravato le divergenze, ponendo le basi per deludenti performance future dei paesi già svantaggiati (effetto di isteresi). Purtroppo, nell’area euro, una crisi della bilancia dei pagamenti – il tipo di crisi a cui va incontro un’area valutaria – deve essere giocoforza risolta attraverso il calo di salari e prezzi (deflazione). E ciò accade anche con la compiacenza dei ceti politici nazionali. 

E poi, le riforme strutturali finiscono con il comportare una crescita potenziale inferiore – per molti anni dopo la loro attuazione – rispetto a quella ottenibile se si fosse evitata la loro implementazione. 

Dal mio punto di vista, affinchè questa agonia per il mondo del lavoro cessi, occorre attendere che si verifichi, magari, un incidente spontaneo – come una nuova grave crisi – che conduca alla dissoluzione, anche eventualmente concordata, di questa Unione monetaria europea. 

Inotre, occorre un ribaltamento culturale di massa. Occorre che le masse tornino ad essere coscienti dei loro reali interessi e creino una classe politica lucida e capace di mutare – cominciando in casa – i rapporti di lavoro e i rapporti distributivi. Dopodichè, la sfida andrà portata alla costruzione europea, la quale – per ora – sembra tiri a campare facendo il minimo possibile pur di non toccare l’assetto di interessi sul quale è stata eretta. 

Intanto, come raccontano anche i dati più recenti, la crisi dell’euro non è risolta e alcuni paesi – come l’Italia – a causa dell’euro soffrono più di altri. La struttura dell’eurozona, che rende possibili squilibri, fughe di capitali e crisi rimane intatta. I propositi di riforma dell’area a moneta comune, avanzati negli ultimi tempi (soprattutto da parte franco- tedesca) si possono collocare nel solco della prosecuzione dell’assetto attuale: si riformi pure, ma nel senso di una maggiore vigilanza dei conti pubblici e senza indulgere in tentazioni di condivisione dei rischi dai quali possa scaturire qualsiasi trasferimento di risorse fra stati. Anche quando vengono discusse, soluzioni come la creazione di una capacità di bilancio sufficiente per l’eurozona, di un’unione bancaria che preveda un’assicurazione dei depositi, l’introduzione di titoli europei come gli eurobonds e l’istituzione di un fondo comune contro la disoccupazione – elementi cioè che avrebbero le potenzialità per puntare verso una maggiore convergenza delle condizioni dei paesi membri dell’Unione -, finiscono per essere subordinate a una costante condizione: si facciano prima i compiti a casa e si demandino a Bruxelles nuovi poteri di controllo. Vale a dire: si pensi anzitutto a eliminare qualsiasi rischio di trasferimenti fra stati, dopodichè si potrà pensare a condividere i rischi. E’ questa la solidarietà europea. E si sa, i creditori hanno già dovuto tollerare l’interventismo della Bce presieduta da Mario Draghi. 

Note:
(1): tramite la fissazione del tasso di interesse, che influisce sugli afflussi/deflussi di capitali nel paese di riferimento.
(2): nell’ipotesi di prezzi rigidi, una manovra monetaria espansiva provoca una diminuzione del tasso d’interesse e un deprezzamento della valuta, aiutando la domanda aggregata; nell’ipotesi di prezzi flessibili, un incremento della spesa pubblica comporta – oltre a un aumento della domanda – quello del tasso di interesse; un ingresso di capitali finanziari apprezza la moneta e provoca un calo delle esportazioni, riportando la domanda aggregata al punto iniziale. 

Scritto da Redazione

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