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La “rivoluzione arancione” in salsa macedone

 

La Macedonia, piccola nazione incastonata nei Balcani, in questi anni non ha mai fatto parlare molto di sé, tranne che per l’annosa disputa nominalistica con la Grecia e per le rotte dell’eroina destinata al mercato europeo. In quest’ultimo periodo, però, l’acuirsi di alcuni problemi interni ed il precipitare della crisi con gli inquieti vicini del Kosovo, l’hanno trascinata, prepotentemente, sotto i riflettori dei media europei ed internazionali. 

Apparentemente, il tutto farebbe pensare ad una “semplice” riacutizzazione di problemi che il paese si porta dietro fin dalla sua indipendenza. Invero, un’analisi attenta della situazione potrebbe riservare non poche sorprese, a cominciare dal numero degli attori coinvolti nella vicenda e dal loro “peso” geopolitico. Ma andiamo con ordine. All’indomani delle elezioni politiche dell’aprile 2014, vinte con largo margine dalla coalizione di destra VMRO – DPMNE, il paese viene scosso da un’ondata di proteste a causa di una sentenza con cui si condannavano all’ergastolo sei cittadini di etnia albanese per un omicidio plurimo che avrebbero commesso due anni prima. La vicenda si inserisce in un contesto segnato da un’irrisolta questione etnica, con gli albanesi, che sono il 18% della popolazione, nella parte della minoranza discriminata. Ben presto, comunque, questa protesta assume un significato politico che va al di là delle sue motivazioni iniziali. Investe il mondo universitario, si rivolge contro la presunta deriva autoritaria del governo. Non solo. Essa si innesta all’interno di una crisi politico-istituzionale, che vede contrapposto il blocco governativo guidato dal premier Nikola Gruevski e le opposizioni, guidate dal socialdemocratico Zoran Zaev. E’ bene ricordare, a tal riguardo, che quest’ultimo, all’indomani delle elezioni parlamentari, nonostante gli osservatori internazionali guidati dall’OSCE avessero confermato la regolarità del voto, rifiutò di accettare il verdetto delle urne, denunciando brogli, disertando la seduta di insediamento del nuovo capo del governo, inducendo i parlamentari della propria parte politica a rassegnare le dimissioni. 

Tutto questo ha contribuito a complicare ancora di più la questione dell’ingresso del paese nell’Unione europea, sul quale, com’è noto, pesa la forte opposizione della Grecia. Sarà per questo che il governo di Skopje ha incominciato ha guardare con maggiore interesse ad est? Di certo la presenza del presidente della repubblica Gjorge Ivanov, e dello stesso Gruevski, il 9 maggio sulla Piazza Rossa, alla celebrazione della vittoria sovietica sul nazismo,  non è passata inosservata. Così come non è passato inosservato il fatto che lo stesso giorno (coincidenza?), nella cittadina di Kumanovo, centro situato nel nord-est del paese, le forze speciali della polizia macedone abbiano condotto una vasta operazione contro presunti gruppi armati provenienti dal Kosovo, che, nei loro «propositi criminali» sarebbero stati spalleggiati da forze irredentiste albanesi operanti all’interno del paese. Il bilancio è stato pesante: 22 morti, di cui otto poliziotti e 14 «terroristi»,  oltre a 37 feriti. Va ricordato, in ogni caso, che il fatto si è verificato a distanza di tre settimane da un’altra incursione di un gruppo armato proveniente dal Kosovo, che, dopo aver preso il controllo di una stazione di polizia, aveva inneggiato alla creazione di uno stato albanese comprendente porzioni del territorio macedone.  

Com’è noto, il Kosovo è un paese che non gode di un riconoscimento pieno a livello internazionale. A perorarne la causa, da sempre, gli Stati Uniti d’America, decisamente contrari, invece, Russia e Cina, oltre che, ovviamente, la Serbia. Da alcune parti si è detto che queste incursioni dal Kosovo, e le proteste di piazza, godrebbero del favore degli Usa e della Nato. E che le stesse sarebbero finalizzate a rovesciare l’attuale governo. Ma perché? A parte la presenza a Mosca il 9 maggio, non sfugge agli osservatori più attenti che la Macedonia, insieme alla Turchia, alla Grecia ed alla Serbia, è interessata dall’attraversamento del gasdotto Turkish Stream, l’alternativa al vecchio progetto South Stream, arenatosi per gli ostacoli frapposti da alcuni paesi europei, per rifornire l’Europa del gas russo. Una questione non di poco conto nella guerra economica, e diplomatica, tra Putin e l’Occidente. Chiaro, a tal proposito, il punto di vista del ministro degli esteri russo Lavrov: «L’evoluzione della situazione in Macedonia è dovuta al rifiuto del governo macedone di sostenere le sanzioni nei confronti della Russia, nonché della sua decisione di aderire al progetto del gasdotto Turkish Stream». Il paradosso: Grecia e Macedonia, divise da una implacabile disputa storico-nominalistica, adesso più vicine per le relazioni che – ognuna dal suo canto – hanno instaurato con la Russia di Putin. 

Nel frattempo a Skopje le proteste non si fermano. Il 5 maggio scorso, una manifestazione delle opposizioni si è conclusa con duri scontri tra polizia e manifestanti, mentre resta altissima la tensione al confine con il Kosovo. Ad aggravare la situazione ci si mette ora anche lo scandalo delle intercettazioni illegali, che, secondo il capo dell’opposizione socialdemocratica Zoran Zaev, avrebbero coinvolto ben 20 mila persone, tra giornalisti, oppositori, agenti di polizia, diplomatici ed esponenti della magistratura. Il lato oscuro della vicenda è, però, che a diffonderne i contenuti, parecchio infamanti per il governo, sia la stessa opposizione, lo stesso Zaev, che non si capisce come ne sia venuto materialmente in possesso.

Com’è accaduto in altre realtà, a cominciare dall’Ucraina, l’unica novità, a questo punto, è che una serie di interessi diversi stiano convergendo verso un unico obiettivo: imporre un cambio di regime. Nelle ultime manifestazioni di piazza si sono ritrovati, per la prima volta nella storia della repubblica ex jugoslava, cittadini di tutte le comunità che compongono il mosaico etnico del paese; tutti uniti contro il governo, accusato di corruzione e di autoritarismo.  Ieri un’altra puntata di questa saga: migliaia di manifestanti, al grido di «Zbogum Nikola» (Addio Nikola), si sono riversati per le strade di Skopje, per chiedere le dimissioni del governo. Insieme a quella macedone, molte bandiere albanesi con l’aquila a due teste e, stampato ovunque, l’hashtag #protesteram. L’intenzione è quella di manifestare a oltranza, fino alla caduta di Gruevski. E già si parla di una nuova “rivoluzione colorata” nel cuore dell’Europa.

 

di Luigi Pandolfi

Fonte: Linkiesta

Scritto da Redazione

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