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Filippo Di Benedetto, lo Schindler calabrese in Argentina

di Luigi Pandolfi

Quanti hanno sentito parlare di Filippo di Benedetto? E di Oskar Schindler? Di quest’ultimo sicuramente in tanti, anche grazie alla fortunata pellicola di Steven Spielberg, Schindler’s list, che qualche anno fa ha spopolato nei cinema di tutto il mondo. Del primo presumibilmente in pochi, ancorché la sua storia sia molto simile a quella dell’imprenditore tedesco. Non perché Filippo di Benedetto fosse stato un noto imprenditore, ma perché in Argentina, negli anni della dittatura, salvò dalla morte sicura centinaia di nostri connazionali.

Filippo Di Benedetto, nativo di Saracena in provincia di Cosenza, dove negli anni tra il 1947 e il 1949 era stato anche sindaco del PCI, nei primi anni cinquanta era emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Come tanti dirigenti politici di periferia anch’egli era un artigiano, un falegname. Ma la sorte aveva riservato per lui un futuro ben più impegnativo. Nel paese sudamericano, oltre a distinguersi per le sue qualità di ebanista, continuò a coltivare la sua passione più grande, la politica, diventando ben presto il referente ufficiale del Partito Comunista Italiano in quelle lontane terre. Ma fu nel sindacato che profuse il suo impegno maggiore, come responsabile dell’ Inca-Cgil, il patronato del maggiore sindacato italiano, e poi come presidente della Filef, la Federazione Lavoratori Emigranti e Famiglie.

Quando nel 1976 i militari prendono il potere, Filippo di Benedetto è ormai una figura di primo piano tra gli emigrati italiani nel paese dei gauchos, un punto di riferimento politico e sindacale importantissimo per migliaia di connazionali, che a lui ed alla sua organizzazione si rivolgono per qualsiasi cosa, dalla pratica per la pensione italiana fino a casi più complessi afferenti la tutela di particolari diritti.

Ben presto la giunta golpista inizia a mostrare la sua ferocia e sono tanti anche gli italiani che incominciano a finire nelle maglie della repressione. Di questa tragedia le istituzioni italiane vengono puntualmente informate. Solo dal 1976 al 1978 furono presentate più di 1600 denunce all’ambasciata italiana di Buenos Aires, riguardanti persone scomparse con passaporto italiano. Eppure a Roma non si mosse nulla. Perché? Sono state avanzate molte ipotesi al riguardo, tra cui una appare la più plausibile: i militari golpisti erano in gran parte iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli. Poi c’erano gli interessi delle maggiori imprese italiane, alle quali andavano bene rapporti cordiali col nuovo regime. A non far scattare un moto di sdegno immediato nel governo e nei partiti italiani contribuirono anche le modalità scelte dai militari per far fuori gli oppositori: essi venivano sequestrati di notte, portati in centri clandestini e lì torturati fino alla morte. Caricati su aerei, i loro corpi venivano poi buttati nel mare. È la storia di decine di migliaia didesaparecidos, che ormai tutti conosciamo.

In questo clima di silenzi, di omertà, di connivenze e complicità, non tutti però girarono la testa dall’altra parte. Tra questi, tra i giusti che ebbero il coraggio di sfidare uno dei regimi più violenti della storia, ci fu Filippo di Benedetto. Qualcuno, tempo fa, ha scritto: “Filippo Di Benedetto, l’emigrato comunista e l’eroico responsabile a Buenos Aires dell’Inca-Ggil che avrebbe dovuto occuparsi delle pensioni degli emigrati italiani e che invece ruppe gli schemi e si occupò di dar rifugio ai braccati, di preparare passaporti falsi, di fornire i biglietti aerei, di accompagnarli all’aeroporto. La storia non dice quanti furono coloro che si salvarono grazie a loro. Forse un centinaio, forse diverse centinaia” . Iniziamo da qui, da “loro”. Loro chi? Qui ci si riferisce a tre persone, tre italiani che, collaborando tra loro, nell’Argentina di quegli anni salvarono la vita a centinaia di nostri connazionali: Enrico Calamai, viceconsole italiano a Buenos Aires, Gian Giacomo Foà, giornalista del Corriere della Sera e, appunto, Filippo di Benedetto.

In un suo recente libro che ripercorre gli avvenimenti di quegli anni Calamai ricorda che già dopo qualche settimana dal colpo di stato incominciarono a presentarsi alla sede del consolato i familiari delle persone scomparse. In un primo momento il viceconsole tenta un’interlocuzione con le istituzioni, ma ben presto si accorge che sulla vicenda delle sparizioni il regime ha eretto un vero e proprio muro. Capisce allora che l’unica via per impedire che altri italiani finiscano nel nulla è quella di favorire la fuga di quante più persone possibili, tra attivisti politici e sospettati di resistenza al regime. Sono davvero tanti gli argentini di origine italiana che cercano aiuto nel consolato nei primi anni della dittatura: vogliono espatriare, ma non hanno soldi, non hanno mezzi e, prima di ogni altra cosa, non hanno i documenti necessari. Quando il console generale decide, per paura, che quel flusso di persone verso il consolato debba essere in qualche modo bloccato, Calamai non ci sta ed inizia a fare cose che solo una persona dotata di una sterminata sensibilità umana può fare: i richiedenti asilo se li nasconde a casa sua, nelle stanze sotterranee del consolato, dove può, e ad alcuni riesce anche a procurare delle autorizzazioni per farli andare via, in Italia, in altri paesi del Sudamerica.

Tutto ciò non sarebbe stato tuttavia possibile, se il giovane diplomatico non avesse agito sinergicamente con Filippo di Benedetto, come egli stesso ha più tardi riconosciuto. Di Benedetto, già attivo sul fronte della difesa dei diritti umani negli anni sessanta e nei primi anni settanta, sotto le precedenti dittature militari che si susseguirono alla caduta di Peron, si rivelerà un elemento preziosissimo nell’impresa di salvare vite umane dalle mani assassine della giunta golpista guidata da Jorge Rafael Videla. I suoi legami con l’Italia, col Pci, i suoi rapporti permanenti con Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo e responsabile della sezione emigrazione del Partito, la sua conoscenza della comunità italiana, saranno decisivi per la fuga e la salvezza di tanti connazionali minacciati dalla dittatura, ma anche per far arrivare in Italia notizie aggiornate sul clima che regnava in quegli anni in Argentina, sulla durezza della repressione messa in atto dai militari.

“C’era il tentativo di lavarsi le mani, di respingere chi chiedeva aiuto. Mi sono trovato piuttosto isolato nel tentativo di dare vita ad un’organizzazione che garantisse al massimo la sicurezza di chi arrivava in consolato. Allora ho avuto aiuto da un sindacalista della CGIL, Filippo di Benedetto. La prima cosa di cui sentii il bisogno era rompere il silenzio stampa, ma i telefoni erano controllati. Filippo pensava così di far arrivare l’informazione in Italia, attraverso suoi amici che lavoravano alle poste, mandando telegrammi, in modo più o meno cifrato”.

Per il suo attivismo a favore dei diritti umani, per aver sfidato la dittatura, Filippo di Benedetto pagò prezzi altissimi. Lui e la sua famiglia. Ho conosciuto personalmente sia lui che alcuni suoi famigliari che in quegli anni sono caduti nelle maglie della repressione e sono rimasto agghiacciato dalle storie che mi hanno raccontato. Molto mi ha colpito la storia di sua nipote, Domenica di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, torturata barbaramente, e di suo marito, Edoardo Czainik, ebreo comunista originario dell’est europa, che non riuscirà a scampare al sequestro e finirà, insieme ad altri trentamila, sulla fredda lista dei desaparecidos. Filippo, che tanti italiani aveva salvato dalla morte, non riuscì a salvare il compagno di un’italiana a lui molto cara, sua nipote. Destino beffardo.

La sua straordinaria umanità è riassunta in queste parole che qualche anno addietro pronunciò nel corso di un’intervista che concesse alla televisione italiana: “Studiavamo sempre un modo nuovo di essere utili agli altri. Non facevamo come quelli che quando gli andavi a parlare di certe cose pensavano subito che gli avresti creato rogne.”

Quando nel 2001 morirà, Gianni Giadresco, partigiano e scrittore romagnolo, di lui dirà: “Chissà se la sua terra d’origine, la Calabria, che lo ha avuto “consultore”, vorrà dedicare un ricordo a questo suo figlio che le ha fatto onore nel mondo, anche se non è diventato uno dei notabili vincenti all’estero. Filippo di Benedetto la sua onestà l’ha dimostrata, vivendo l’umile vita dell’emigrante, rimanendo quello che è sempre stato: povero e onesto.”

[1]Giovanni Villari, Lo strappo del console onorario, Il Manifesto, 04.11.2003.
[2]Enrico Calamai, Niente asilo politico, Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006.
[3]La storia siamo noi, Enrico Calamai, un eroe scomodo, Mediateca RAI.
[4]Gianni Giadresco, Grave lutto per la Filef la morte di Filippo di Benedetto, Emigrazione notizie, 13.09.2001.
[5]Filippo Di Benedetto, in “La crisi infinita. Problemi e contraddizioni del mondo attuale” di Innocenzo Alfano, Aracne 2009.

Scritto da Redazione

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