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La Slovenia è un Paese in rivolta, ma nessuno lo dice

L’ingresso della Slovenia nell’Eurozona, il 1 gennaio 2007, era stato salutato con canti di giubilo dai media nazionali e stranieri, ma soprattutto dai tecnocrati di Bruxelles, che, a proposito di questo piccolo Paese ai piedi delle Alpi Giulie, avevano parlato addirittura di “alunno modello”. Dopo quattro anni, però, le cose iniziano a prendere una piega diversa. L’“alunno” incomincia a manifestare segni di irrequietezza, il “sogno” europeo mostra i primi segni di cedimento.

Cosa succede? Un po’ quello che è successo nello stesso periodo in altri Paesi europei e negli Usa: l’avventurismo spericolato del sistema bancario manda in tilt l’economia nazionale e a pagarne il conto vengono chiamati i cittadini. Una storia di finanza creativa, di mutui subprime e credito (facile) al consumo, di cartolarizzazioni, debiti bancari e bolle immobiliari, che, secondo il solito copione, finisce con la richiesta di giganteschi sacrifici al popolo, ai ceti più deboli della società.

Prima il governo di centrodestra guidato da Janez Janša – ora in carcere con l’accusa di corruzione -, poi quello di centrosinistra con a capo Alenka Bratušek, leader del partito Slovenia Positiva. In due anni hanno varato una serie di “pacchetti anticrisi”, imperniati su privatizzazioni, nuove tasse e tagli alla spesa pubblica, che hanno ulteriormente aggravato lo stato di salute dell’economia nazionale, già in recessione dal 2011. Un esempio su tutti: nel 2007 il tasso di disoccupazione era al 4,9%, oggi è al 12,3% (rilevazione di settembre), quasi triplicato.

Ma i cittadini non sono stati alla finestra. Già a partire dagli ultimi mesi del 2012, e con maggiore intensità per tutto il 2013, la Slovenia è stata teatro di una mobilitazione sociale senza precedenti dal 1991, anno della dichiarazione di indipendenza del Paese dall’ex Jugoslavia. Decine e decine di manifestazioni di piazza, alcune sfociate anche in scontri violenti con le forze dell’ordine, hanno scandito rumorosamente l’agenda politica del Paese praticamente fino ad oggi.

Una protesta che si è sviluppata su un doppio binario: quello del contrasto alle politiche di austerità e quello della richiesta di un ricambio della classe politica, giudicata corrotta e inadeguata. È in questo clima che il Paese è tornato alle urne lo scorso 13 luglio, a seguito delle dimissioni del premier Alenka Bratušek. E solo questo clima può giustificare l’ascesa al potere di Miro Cerar, fino a qualche mese fa conosciuto soprattutto per essere il figlio di un noto ginnasta, Miroslav Cerar, che negli anni sessanta vinse 3 medaglie olimpiche. Classe 1963, docente di diritto costituzionale all’Università di Lubiana e analista politico, per alcuni anni consulente del parlamento, Cerar è stato artefice della più singolare e strabiliante impresa politica di cui si abbia memoria nella storia delle democrazie contemporanee: senza aver mai partecipato attivamente alla vita politica del Paese, a distanza di un mese dalla caduta del governo di centrosinistra nel maggio scorso, decide di formare un nuovo partito, al quale dà direttamente il suo nome (SMC, Stranka Mira Cerarja – Partito di Miro Cerar). Si presenta alle elezioni che si svolgono il mese successivo e le vince, con il 34,49% dei voti (36 seggi su 90). Oggi è il capo del governo, sostenuto da una maggioranza che comprende anche il partito dei pensionati (DeSUS) e i socialdemocratici (SD). Tutto in meno di due mesi.

Quali sono le idee guida del “Partito di Miro Cerar”? Quale la sua collocazione politica? Bè, anche in Slovenia sono saltati alcuni schemi tradizionali, non è facile classificare questa nuova creatura politica con categorie classiche come quelle di “destra” e “sinistra”. E il suo leader perfino lo rivendica: «il nostro partito non è di destra né di sinistra, ma prende il meglio delle due opzioni». Un segno dei tempi, in cui all’inasprimento della crisi corrisponde un po’ ovunque l’affermazione di un nuovo populismo, variamente ammantato da Paese a Paese. Una cosa però è certa: l’operazione, all’origine, si è avvalsa del sostegno di noti imprenditori del Paese, e questo, già di per sé, dice più di qualsiasi dichiarazione o discorso dei suoi promotori.

Nella sua campagna elettorale Cerar ha puntato molto sul tema della moralità (“Ridare l’etica alla politica” era il suo slogan) e su quello di una fuoriuscita dalla crisi senza troppi sacrifici per il popolo (stop alle privatizzazioni selvagge ed ai tagli alla spesa sociale), raccogliendo perciò una domanda di cambiamento che per mesi si era espressa nelle piazze, sui social network, attraverso la rete dei comitati spontanei che avevano provocato la caduta dell’esecutivo Janša nella primavera scorsa.

Ecco cosa si leggeva in un editoriale del quotidiano della capitale Dnevnik all’indomani delle elezioni: «Il messaggio del voto è che la gente ne ha abbastanza di ogni sorta di follia politica, la messa in causa del sistema giuridico, le dispute (…) e l’accettazione cieca dei programmi dettati da Bruxelles». Una lettura che aveva trovato accoglienza anche fuori dai confini nazionali, spingendo qualche ardito opinionista, anche in Italia, a parlare nientemeno che di una svolta antieuropeista. Il Financial Times, ad esempio, l’11 luglio, due giorni prima del voto, così scriveva: «La possibile vittoria di Miro Cerar in Slovenia è l’ultimo segno della disillusione degli elettori europei verso i partiti tradizionali e le misure di austerità».

Finiti i festeggiamenti, però, gli sloveni si sono ritrovati di fronte a una realtà totalmente diversa. Al primo banco di prova, rappresentato dalla legge di stabilità, il nuovo esecutivo ha sostanzialmente confermato la linea di austerity già seguita dai governi precedenti. Nel documento inviato a Bruxelles nel mese di ottobre, infatti, a fronte di uno sforamento dello 0,3% del tetto del deficit programmato per quest’anno (4,1%), si prevede una drastica cura dimagrante per l’anno prossimo, di cui faranno le spese essenzialmente i lavoratori dipendenti (decurtazioni salariali nel settore pubblico pari ad 1 punto percentuale di Pil) ed i percettori di assegni sociali. Nell’insieme sono previsti tagli al welfare e una riduzione degli investimenti pubblici pari, rispettivamente, allo 0,6% ed allo 0,53% del Prodotto interno lordo. Con queste misure, pensano ai piani alti del governo, il deficit scenderà nel 2015 sotto l’asticella del 3% per come stabilisce il Patto di bilancio europeo. E il loro effetto recessivo? Un problema che, a quanto pare, non si sono proprio posti.

Da Bruxelles, ovviamente, è arrivato subito l’ok (solo la richiesta di piccoli aggiustamenti, prontamente accolta dai nuovi inquilini di gregorčičeva ulica), con l’ammonimento che il 2015 costituirà un limite invalicabile per il “risanamento” dei conti pubblici.

Beninteso, Cerar non si è mai distinto per un’avversione radicale alle politiche di austerità, ma, abilmente, è riuscito portare dalla sua parte il grosso del dissenso che, sul punto, si era manifestato fino a quel momento nel Paese, offrendo, per di più, una sponda a tutti quelli che invocavano (ed invocano) una profonda moralizzazione della vita pubblica. Dopo le prime scelte compiute dal governo, parlare di infedeltà agli impegni presi con gli elettori, forse, è il minimo che si possa dire.

di Luigi Pandolfi

da: http://www.linkiesta.it/

 

Scritto da Redazione

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