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Tra perseverare nell’euro e uscirne, c’è una terza strada da percorrere

Bisogna riconoscere che dopo la pubblicazione l’anno scorso dell’eBook di Micromega (“Oltre l’austerità“) e i tanti contributi che sono poi comparsi su questo e su altri giornali, il dibattito nella sinistra si è disincagliato dalla semplice alternativa tra restare o uscire dall’Eurozona.

D’altro canto la crisi in Europa non smette di aggravarsi, le elezioni europee si avvicinano e sarebbe disastroso se una sinistra non si presentasse con un discorso innovativo sul tema della unità monetaria e della governance della Ue.

Tra le forse della destra estrema è molto agitato il tema di una fuoriuscita immediata dall’euro. Questo è una logica conseguenza dell’antieuropeismo caratteristico delle forze più aggressive della destra europea. Quest’ultimo oggi si ammanta di ragioni economiche, che vengono a sovrapporsi, grazie alle conseguenze evidenti della crisi sulle popolazioni europee, agli archetipi patriottardi e xenofobi delle destre.

In Germania è nata una nuova forza politica, Alternative fuer Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania), ansiosa di testare la propria consistenza elettorale nelle imminenti elezioni di settembre – per ora nei sondaggi non superiore al 2,5% – che ha fatto della distruzione dell’attuale sistema dell’euro la propria bandiera. “ Dobbiamo preparare un’uscita degli Stati del Sud dell’Europa dall’euro. Non so se si debba cominciare con i piccoli, Grecia e Cipro, o varare subito una soluzione globale, dividersi nell’insieme. Tra una specie di Nord-Euro e una specie di Sud-Euro”, ha dichiarato in una intervista di fine agosto, il professor Bernd Lucke, leader carismatico dell’ AfD. L’impronta violentemente nazionalistica e antisolidaristica di una simile posizione non può lasciare dubbi sulla sua origine ideologica.

Il calabrone non può volare all’infinito

Con tollerabile semplificazione possiamo dire che fino all’esplosione in Europa (2008) della crisi economica mondiale iniziata l’anno prima negli Usa, ha prevalso la convinzione che in fondo, per quanto imperfetta fosse, la moneta unica avrebbe potuto durare e che un sistema generalizzato di bassa inflazione poteva tornare comodo anche alle classi lavoratrici e ai ceti più indigenti. Il calabrone poteva continuare a volare con la benedizione anche di chi stava più in basso. La sinistra moderata, ovvero il social-liberismo, poteva occuparsi, con più affidamento delle destre, a raddrizzarne il volo, contribuendo a rafforzare le pareti della gabbia monetaria entro cui stringere la fortezza europea, attenuando al contempo le proteste popolari. D’altro canto il principale paese europeo era guidato da una Grosse Koalition, con a capo la Merkel (2005-2009), e questa garantiva dell’impegno e della indispensabilità di tale sinistra alla risoluzione di quel compito.

Ma con il dilagare degli effetti della grande crisi sul continente europeo le preoccupazioni sulla tenuta del sistema euro sono diventate generali, fino a essere devastanti come nella fase attuale. Ormai gli editorialisti del Financial Times, Wolfgang Munchau in testa, fanno a gara a prevedere come imminente l’implosione dell’Eurozona. La crisi del più piccolo paese, vedi il caso cipriota, o di una banca, il temuto pronunciamento della Corte costituzionale tedesca sulla partecipazione della Germania ai timidi programmi di salvataggio dei paesi in difficoltà, per non parlare da ultimo dei timori di una ripresa in grande stile della speculazione internazionale in seguito agli annunci della Federal Reserve americana di mettere fine o limitare l’erogazione di liquidità a favore del sistema bancario; insomma tanto avvenimenti circoscritti e apparentemente minimali, quanto sommovimenti di rilievo mettono quotidianamente in forse la sopravvivenza dell’Euro. E’ lecito quindi domandarsi se siamo veramente di fronte ad una profonda modificazione degli stessi obiettivi su cui è sorta la Unione europea e su cui si è strutturata dal suo inizio la sua moneta, oppure se il corso attuale delle cose non fosse implicito fin dall’inizio e potesse quindi essere previsto.

Anche qui bisogna guardarsi da risposte troppo semplificatorie come da atteggiamenti di indifferenza. Non c’è dubbio che per quanto le crisi economiche siano frequenti nel sistema capitalistico e che questa frequenza sia aumentata nel secondo dopoguerra con particolare intensità con l’inizio di questa fase della globalizzazione, cioè dagli anni Ottanta in poi, nessuno poteva veramente dire di avere previsto una crisi di tali proporzioni quale quella attuale. E in effetti nessuno la previde, con qualche rara e parziale eccezione come quella di Roubini, per l’appunto sbeffeggiato come Mr. Doom. La famosa e maliziosa domanda che la Regina d’Inghilterra rivolse a una autorevole riunione di economisti: “come mai non è stato possibile prevedere la crisi?” è rimasta sostanzialmente senza risposte o con troppe e divergenti, il che è più o meno la stessa cosa.

L’Europa non era e non è un’area valutaria ottimale

Seppure con il senno di poi e necessario spirito autocritico, si deve soprattutto dire che il sistema della moneta unica era fondato su aporie che non era impossibile riconoscere, ma che più o meno a tutti convenne fingere di non vedere. Il suo padre putativo, l’economista canadese Robert Alexander Mundell (premio Nobel 1999) aveva legato le sue fortune accademiche all’elaborazione della teoria dell’area valutaria ottimale (optimum currency area) risalente agli anni Sessanta. Ma che l’Europa della fine degli anni Ottanta non lo fosse, era evidente anche a un cieco. Eppure cecità e sordità la fecero da padroni, malgrado che anni le istituzioni europee non potessero non avere, almeno dal punto di vista teorico, la più ampia conoscenza delle condizioni e dei meccanismi di funzionamento di un’area valutaria ottimale.

Tra questi, vale la pena di ricordarlo, sono da annoverarsi:

una flessibilità di prezzi e salari, come più volte aveva ribadito anche Milton Friedman; la mobilità interregionale di lavoro e capitale, come argomentato dallo stesso Mundell; un buon grado di apertura dell’economia; una diversificazione produttiva (Peter Kenen, economista americano di area liberal recentemente scomparso, ha sostenuto che un’area valutaria è tanto più efficace quanto più è diversificata, perché un calo della domanda di alcuni suoi prodotti può non affliggerne altri); l’integrazione fiscale (lo stesso Kenen ha sottolineato l’importanza di politiche fiscali atte a rendere sostenibili le ‘sacche di disoccupazione’ che inevitabilmente si verificherebbero a seguito di oscillazioni nelle esportazioni combinate con una imperfetta mobilità del lavoro; in sostanza, trasferimenti dalle aree più ‘ricche’ a favore di quelle più ‘povere’); la convergenza dei tassi di inflazione ( l’economista scozzese Marcus Fleming ha sottolineato che in un’area a cambi fissi questi lo sono solo nominalmente; se vi sono differenze nei tassi di inflazione, cambiano comunque i tassi di cambio reali. In effetti è quando si è realizzato: un team di economisti della Ubs alla fine del 2011 aveva stimato che l’euro tedesco fosse sottovalutato del 40%); l’inclusione tra i criteri di convergenza della bilancia dei pagamenti, possiamo ora aggiungere, sapendo che questa, sulla scorta dell’esperienza fin qui accumulata, va considerata come il fattore più rilevante per la stabilità dei tassi di cambio e dunque una precondizione essenziale di una unione monetaria. 

Tutto questo veniva affermato, con qualche eccezione come abbiamo visto, nell’ambito della mainstream di allora. Ma non era solo la teoria a parlare. Le autorità europee avevano di fronte l’esperienza del fallimento del Serpente Monetario Europeo, intervenuta a metà degli anni Settanta, che dimostrava la renitenza degli stati membri ad attuare una vera integrazione fiscale. Di tutto ciò però non si fece cenno, quantomeno in modo tale da trarne le dovute conseguenze, nello stesso rapporto Delors del 1989, ove veniva a mancare ogni riferimento ad una politica fiscale comune. Nel nostro Paese Federico Caffè ammoniva inascoltato le autorità politiche e monetarie che “… privarsi di uno strumento di politica economica è molto grave per un paese che, tutto sommato, può fare affidamento solo sulla politica monetaria, data la scarsa possibilità della politica fiscale e l’inesistenza di una politica dei redditi”.

Questa assenza di condizioni per il nostro paese, ma non solo, si è ulteriormente aggravata con i più recenti passi che la Ue ha compiuto per dotarsi di una governance. Il fiscal compact, il two-pack, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio sono tutti strumenti autoritari e invasivi che deprivano i singoli paesi della loro sovranità, inibendo loro di potere esercitare una politica economica e di bilancio, senza che tutto questo venga compensato da un incremento del bilancio europeo, che anzi è stato recentemente diminuito, né da una politica fiscale ed economica tesa a ridurre gli squilibri tra i diversi paesi, che infatti si vanno approfondendo, come è dimostrato anche dall’andamento degli spread.

Il crollo dei salari è comunque anteriore all’istituzione dell’euro

Si può dire che l’unica condizione presente tra quelle necessarie per definire un’area valutaria ottimale è stata quella prevista da Friedman, ossia la flessibilità dei salari, peggio, la loro tendenza alla perdita di valore assoluto e relativo rispetto alla spartizione della ricchezza nazionale con i profitti e le rendite. E’ un punto importante su cui riflettere, perché nel dibattito attuale uno dei punti di forza delle teorie della uscita immediata dall’euro sarebbe quella che per questa via si potrebbero meglio difendere i redditi da lavoro, attualmente vittime dell’unica svalutazione possibile in regime di moneta unica. Il che riflette una sopravvalutazione del ruolo della moneta nell’economia capitalistica e una contemporanea sottovalutazione della dinamica di classe sviluppatasi nel passaggio dai cosiddetti trenta anni gloriosi e il periodo successivo nel quale siamo tuttora immersi. E’ curioso che proprio quest’ultima non venga percepita nella giusta dimensione dalla sinistra d’alternativa. Non così Warren Buffet che ascrive alla superclass di ricchi, cui senza vergogna appartiene, il merito di avere vinto una fase decisiva – speriamo non definitiva – della guerra di classe che nel frattempo si è combattuta.

Il declino della quota della ricchezza che va ai salari, tornata in termini relativi ai livelli della fine degli anni sessanta, almeno per quanto riguarda il nostro paese, non è affatto dovuta alla introduzione dell’euro – o almeno non principalmente – ma costituisce una tendenza di più lungo periodo, sviluppatasi appieno proprio in un sistema internazionale di cambi variabili. E’ stata una delle caratteristiche dominanti di quella lunga rivoluzione restauratrice scatenatasi sul crinale tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sotto la guida del pensiero neoliberista. Non a caso uno dei suoi punti di partenza è stata proprio la fine della convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971).

Luca Fantacci (La moneta. Storia di un’istituzione mancata. Venezia, 2005, pag. 217) si interroga se “la sospensione della convertibilità del dollaro (sia) stata un colpo di stato” e si risponde “Apparentemente no, perché il dollaro era già al potere. Non si trattò di conquistare il potere con mezzi illegittimi, ma di conservarlo, rimuovendo il fondamento della sua legittimità. In un caso e nell’altro, l’esito è lo stesso: un governo illegittimo. Ma la seconda maniera è la più infida, perché la continuità del governo maschera il venire meno della sua legittimità, mentre la rimozione del principio di legittimità è funzionale alla conservazione del potere in questa forma.”

Rivoluzione conservatrice e moneta unica europea

Ecco dunque un’ottima descrizione, in relazione alla questione monetaria, del concetto di rivoluzione conservatrice. Quest’ultimo però si sostanzia soprattutto in una riduzione massiccia dell’occupazione: alla fine del secolo scorso il tasso di disoccupazione nell’Europa occidentale era dell’11%, più elevato di quello registrato durante la depressione degli anni Trenta e quattro volte superiore a quello dei trent’anni gloriosi. Conseguentemente la quota della ricchezza destinata ai salari si riduce di più del 10% e va a ingrossare profitti e rendite. Le cosiddette svalutazioni competitive, con l’euro divenute impossibili, non salvano il livello dei salari. Evidente è il caso italiano, quando si ebbe contemporaneamente agli inizi dei Novanta la svalutazione della lira, l’avvio del più grande programma di privatizzazioni di beni comuni e di istituzioni del welfare state (secondo in Europa solo a quello della Gran Bretagna), l’abolizione definitiva della scala mobile e gli accordi di concertazione triangolari per frenare l’incremento delle retribuzioni e ingabbiare il sistema contrattuale.

Non è stata dunque la moneta unica a dare l’avvio a tale processo. Essa piuttosto ne costituisce il culmine, quella che permette in Europa di solidificare un sistema di governance basato sul primato della lotta all’inflazione e l’abbandono della ricerca della piena occupazione e dell’intervento pubblico in economia. Quest’ultimo del resto non rappresentava soltanto il punto di equilibrio raggiunto dalla lotta per l’affermazione di diritti e bisogni da parte delle classi lavoratrici, ma l’allargamento della sfera della produzione di valori d’uso a scapito di quelli di scambio. Metteva concretamente in discussione il carattere del capitalismo quale economia monetaria di produzione. Il primato della moneta andava dunque ristabilito. La responsabilità della politica economica doveva quindi passare dai ministri delle finanze ai banchieri centrali. Questo fu il senso profondo del divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro attuato nel nostro paese nel 1981 su ispirazione di Beniamino Andreatta. Lo strapotere della Banca centrale europea nella Ue rappresenta lo stadio attuale cui questo stesso processo è giunto.

Le responsabilità della sinistra in questi processi

Nella sinistra di alternativa di allora, quella degli anni Novanta, quando maturavano i trattati di Maastricht e l’istituzione della moneta unica, la consapevolezza di questi processi era molto relativa, per non dire scarsa. La percezione che la scelta di una moneta unica, in assenza di quasi tutte le condizioni perché essa potesse funzionare in modo non distruttivo, fosse un azzardo in mani altrui era inesistente o fossilizzata su considerazioni ideologiche. Nel caso di Rifondazione Comunista, parlo con cognizione di causa, si pensava allora che si potesse distinguere la questione dell’euro da quella di una politica economica sociale. Da qui il sostanziale appoggio alla creazione della moneta unica e la immediata richiesta di una svolta nelle politiche economiche e sociali che poi sfociò nel ritiro dell’appoggio esterno al primo governo Prodi. Il giudizio sul passaggio all’euro restava per così dire benevolmente sospeso.

Certamente ben diversa era la consapevolezza delle classi dirigenti. Da un lato era forte il mito del progresso economico – l’onda era favorevole – che ben si sposava con l’idea di una moneta quale riserva di valore cha scacciava la paura del futuro, dall’altro lato prendeva sempre più corpo il disegno della Germania – in una prima fase possiamo dire franco-tedesco – di fare dell’Europa un proprio campo di dominio diretto, in forza del quale affrontare direttamente le cosiddette sfide della globalizzazione. Non bastava il marco, per un paese che doveva ripartire sugli altri le spese del proprio processo di riunificazione, serviva un euro modellato secondo le esigenze dell’economia esportatrice tedesca. Queste spinte ideologiche e questi concretissimi interessi hanno fatto aggio su tutte le perplessità attorno al carattere non ottimale dell’area valutaria europea che venivano avanzate anche dalla dottrina ufficiale.

Se questo è quanto è avvenuto, ora possiamo porci con forse maggiore consapevolezza la domanda se conviene a un paese come il nostro uscire dall’euro prima che questo imploda in ragione del cumularsi delle aporie che lo accompagnano dalla nascita con gli effetti della crisi e, in questa, delle politiche ciecamente restrittive assunte dalla Ue.

L’uscita dall’euro va realizzata a ogni costo?

La difficoltà nel dare una risposta convincente alla domanda dipende da diversi fattori. In primo luogo il sistema che presiede l’euro non prevede la fuoriuscita di un paese. E’ un sistema chiuso. Questo significa che l’uscita costituisce un fatto traumatico per il sistema, dal quale è ovvio attendersi più di una controreazione. In secondo luogo l’uscita di un paese delle nostre dimensioni porta probabilmente all’implosione dell’intero sistema, il che riduce di molto la concreta possibilità di progettare un’uscita governata. Emiliano Brancaccio ha giustamente affermato che c’è modo e modo di realizzare un’uscita dall’euro. Cioè è teoricamente possibile attutire le conseguenze negative, ad esempio istituendo un sistema di indicizzazione delle retribuzioni, per prevenire probabili ventate inflazionistiche. Non c’è bisogno di prevedere catastrofi sul versante dell’inflazione. Non ha quindi molto senso l’ironia di alcuni autori, fra i quali Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Reggio Emilia, 2012), a questo riguardo. Del resto nessuno realmente può dirsi capace di quantificare il valore di una rinata moneta nazionale a seguito di una fuoriuscita dall’euro. Tutti i paragoni fin qui fatti mi paiono impropri per l’eccessiva diversità delle condizioni, come quello ricorrente dell’abbandono della parità dollaro – peso dell’Argentina. In ogni caso il problema vero è che le retribuzioni nel nostro paese sono ridotte a un livello tale che ci fa terrore persino l’aumento di un punto dell’Iva sui consumi popolari, come è previsto che avvenga, figuriamoci un balzo di qualche punto di inflazione, senza che siano necessariamente decine.

Nello stesso tempo i vantaggi che potrebbero arrivare dal ritorno alla moneta nazionale svalutabile, per quanto riguarda le nostre esportazioni sono limitati dal fatto che il declino industriale del nostro paese non è spiegabile solo con le ragioni dei tassi di cambio, ma ha motivazioni profonde, come più volte ci ha spiegato Luciano Gallino. Uscire dall’euro per l’Italia non è la stessa cosa che per la Francia. Per queste ragioni considerazioni pure molto interessanti e di spessore come quelle avanzate da Jacques Sapir (Bisogna uscire dall’euro? Verona, 2012)ci appaiono lontane dalla nostra specifica condizione. Detto un po’ grossolanamente, per esportare bisogna produrre prodotti appetibili o addirittura mancanti sul mercato internazionale. Bisogna collocarsi nei punti alti della divisione internazionale del lavoro, visto che la competizione sul costo del lavoro ci sarebbe impossibile, oltreché indesiderabile proprio da coloro che vogliono l’uscita immediata dall’euro per opporsi alla svalutazione di fatto dei salari interni. Non è quindi il ritorno ai cambi flessibili che di per sé può ridurre le differenze assai marcate fra le capacità esportative dei vari paesi europei. L’argomento delle esportazioni vale più come deterrente nei confronti della Germania, nel caso che il passo di uscita dall’euro fosse compiuto da quella parte (come suggerisce George Soros) che non per noi e gli altri paesi mediterranei, nel senso che il grande paese tedesco perderebbe i propri vantaggi competitivi in misura maggiore di quanto non gli costerebbe allentare la borsa sulla mutualizzazione del debito dell’Eurozona, al netto delle pulsioni nazionalistiche ed egoistiche che muovono l’elettorato tedesco.

La dichiarazione di Oskar Lafontaine sui vantaggi per i paesi del sud dell’Europa di una rottura della gabbia dell’euro, che ha fatto molto discutere, è basata su uno studio della Fondazione Rosa Luxemburg, a cura di Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas. Gli autori passano in rassegna diversi aspetti del problema. Ma la tendenza a sottovalutare svantaggi e specularmente a sopravvalutare i vantaggi di una simile mossa è fin troppo evidente. Del resto non tutti nella Fondazione sono d’accordo con le conclusioni cui giungono i due studiosi, a partire da Mario Candeias, vicedirettore della autorevole Fondazione tedesca (intervista al Manifesto del 1 settembre 2013), anche se va riconosciuto a questo studio il lodevole tentativo di riaprire in modo alternativo il dibattito in Germania su un argomento che in quel paese non incontra certo il plauso popolare, per usare un’espressione eufemistica.

In primo luogo unire le forze per cambiare le regole della Ue

In ogni caso le condizioni che vengono poste perché un’uscita dall’euro non si risolva, almeno nell’immediato, in un male peggiore – quali appunto una integrale indicizzazione automatica delle retribuzioni, il controllo sui movimenti internazionali dei capitali, il blocco di una eventuale fuga dai depositi bancari e altro ancora – costituiscono piuttosto un robusto programma di governo che non un elenco di richieste da parte di un’opposizione per quanto combattiva. Se molti autori insistono, come Frederic Lordon (in Le Monde Diplomatique, agosto 2013) sulla improbabilità di riuscire a convincere la Germania a cambiare politica, ovvero sulla rigidità sostanziale dei rapporti di forza, traendo da ciò la conclusione di una impossibilità della modifica dall’interno dell’Eurozona delle scelte economiche, con altrettanta ragione si dovrebbe dubitare della possibilità, almeno in Italia e nei tempi brevi, di un’uscita ‘da sinistra’ dall’euro, ovvero in modo tale che il saldo per le classi popolari non sia negativo.

Visto che in ogni caso per modificare la situazione le forze da mettere in campo devono essere tante e ben determinate, è forse più opportuno e fruttifero immaginare un diverso percorso.
Il primo stadio può benissimo essere condensato in una frase che il già citato Wolfgang Munchau ha usato nei confronti dell’Italia in un suo editoriale di qualche mese fa (Financial Times del 28 aprile 2013): “paradossalmente la sola maniera di rendere sostenibile la posizione attuale dell’Italia nell’Eurozona consiste, in linea di principio, nella capacità di essere pronti a lasciare l’euro. Se invece, per principio preso, il governo italiano scarta questa opzione, aumenta davvero per l’Italia la probabilità di uscire dall’euro, poiché ci sarà una minore pressione sui paesi dell’eurozona nell’attuare i cambiamenti necessari”.

Tale affermazione può essere fatta pari pari per altri paesi mediterranei e in generale per tutti i Piigs. Ora anche per la Francia, la quale cerca di fare dimenticare la propria reale condizione lanciandosi in ripetute avventure belliche in MedioOriente e in Africa, ma recentemente Goldman Sachs l’ha infilata tra i paesi ‘semicore’, come L’Austria e il Belgio. Un gradino sopra l’Italia, ma nettamente sotto la Germania. Se la minaccia di lasciare l’euro, qualora non vengano cambiate le regole fondamentali di funzionamento della Ue e del suo sistema monetario, venisse portata avanti da più paesi acquisterebbe maggiore forza di deterrenza. Ovviamente non parlo di modifiche di dettaglio ma di grande peso, quali una sostanziale revisione dei trattati istitutivi, la cancellazione degli anacronistici limiti del 3% e del 60% che regolano i deficit annuali e il rapporto fra debito complessivo e Pil, del fiscal compact, del pareggio di bilancio, del ruolo della Bce, che dovrebbe privilegiare la ricerca di un nuovo sviluppo e di una nuova occupazione in modo prioritario rispetto al contenimento dell’inflazione.

Non si tratta di piccole cose perseguibili tutte in un colpo solo, ma certamente tali da provocare un sostanziale cambiamento della governance europea. Malgrado questo non è affatto detto che la soglia della fuoriuscita dall’euro debba essere necessariamente superata. E’ vero, la strada è molto stretta, ma il modo certo di renderla impercorribile è postularne in anticipo l’impraticabilità. Sembra che anche nella sinistra radicale abbia fatto breccia, ascoltando o leggendo certi commenti anche autorevoli, una sfiducia di fondo nella possibilità del cambiamento, in virtù della quale buttare per aria il tavolo sarebbe più facile e proficuo che non cercare di raddrizzarlo. In questo modo però si dà credito alla stessa Germania di un grado di potenza che esiste solo nei suoi desideri, come se essa potesse procedere nel proprio potente sviluppo economico indipendentemente dalle condizioni dell’Europa e del mondo. E’ bene non dimenticare che per quanto le esportazioni tedesche extraUe siano in aumento, è sempre considerevole il peso del mercato europeo per assorbire la capacità esportativa germanica. Inoltre gli effetti della crisi si stanno facendo sentire anche su grandi paesi emergenti, potenziali o già effettivi importatori delle merci tedesche, come dimostra il caso dell’India, che si sta sempre più aggravando. In sostanza neppure il grande paese tedesco potrebbe affrontare a cuor leggero una forte rivalutazione della propria moneta nazionale restaurata.
Naturalmente, per avanzare una minaccia bisogna essere in grado di poterla attuare e che questa possibilità venga considerata credibile non solo da chi l’avanza ma anche e soprattutto dal minacciato.

Pensare una nuova moneta.

Che tipo di sistema monetario può essere quindi pensato e progettato in alternativa all’euro? Si tratta del semplice ritorno allo stato quo ante, cioè al sistema delle monete nazionali e dei cambi fluttuanti, con l’immancabile dominio del marco tedesco? Oppure la divisione in un euro del Nord e uno del Sud? Oppure il sistema euro si manterrebbe, però rimpicciolito grazie alla espulsione dall’Eurozona di alcuni paesi? A guardare bene queste prospettive non sono molto diverse tra loro. Tutte hanno in comune un passo indietro nella costruzione dell’unità europea. Se infatti quanto fin qui detto dimostra che il passaggio dall’unità economica a quella politica è tutt’altro che automatico e conseguente – e se avviene dà vita a un soggetto a-democratico -resta da dimostrare che la rottura traumatica di questo percorso rilanci di per sé il tema dell’unità sul terreno politico e costituzionale.

In ogni caso non credo che il dentifricio possa essere rinfilato nel tubetto, per quanto immatura e vistosamente improvvida sia stata la creazione dell’euro come abbiamo fin qui mostrato. La eventuale fuoriuscita dall’attuale sistema comporta perciò immaginare una nuova forma di denaro. La storia delle monete ci insegna che attraverso queste, in filigrana è il caso di dire, si intravede un’idea di società. Ne consegue che un’idea alternativa di società, più in piccolo di Europa, presuppone una nuova idea di moneta.

Poiché anche le più grandi innovazioni, per essere ben fondate, devono tenere conto del meglio che ci offre il passato, è bene riprendere in considerazione l’elaborazione di John Maynard Keynes, quella che lo portò, a metà degli anni Quaranta, ad elaborare il progetto del Bancor, questo il nome della moneta, all’interno di una nuova Unione monetaria internazionale (International Clearing Union). Keynes avanzò sette diverse versioni del suo progetto (le principali in John Maynard Keynes, Eutopia. Proposte per una moneta internazionale, a cura di Luca Fantacci con un contributo di Zhou Xiaochuan, Milano 2011), anche per rispondere a quelle portate avanti dagli americani, che poi risultarono vincenti nella conferenza di Bretton Woods da cui derivò lo stesso Fondo monetario internazionale.

Keynes fondò il proprio progetto sull’analogia con un sistema bancario nazionale. “Nessun depositante di una banca locale soffre per il fatto che il saldo, che egli non usa, è impiegato per finanziare gli affari di qualcun altro” egli scriveva, quindi “la sostituzione di un meccanismo di credito, in luogo della tesaurizzazione, consentirebbe di ripetere su sfera globale lo stesso miracolo, già attuato in campo nazionale, di tramutare le pietre in pane”. Per fare questo bisogna che la moneta circoli, non sia oggetto di tesaurizzazione, serva per essere spesa, sia in sostanza una unità di conto e non una riserva di valore.

Quindi questa non solo può, ma deve convivere con le monete nazionali e locali. A ogni singolo paese non viene quindi chiesto di rinunciare alla propria sovranità, neppure in campo monetario, ma di non esercitarla con la forza, che innanzitutto gli deriva dall’accumulazione della moneta di riferimento del commercio mondiale. Per questo Keynes, nella sua prima versione del ’41, definisce le disposizioni da lui proposte come “una misura di disarmo finanziario”. Per il grande economista inglese il Bancor doveva essere lo strumento per realizzare “un sistema di compensazione multilaterale. In parole povere, una moneta universale valida per le transazioni commerciali in ogni parte del mondo” in modo tale che non si determinino quegli squilibri permanenti della bilancia dei pagamenti che già allora, ma soprattutto oggi sono uno dei mali peggiori.

Dice infatti Keynes: “Ogni moneta internazionale liberamente convertibile è caratterizzata dal fatto di addossare gran parte dell’onere di aggiustamento sul Paese che si trova nella posizione di debitore nella bilancia dei pagamenti internazionale”, e pare proprio di leggere la crisi di oggi. Per Keynes invece la moneta deve essere “un semplice intermediario, senza alcuna importanza per se stesso, che passa di mano in mano, è ricevuto ed è speso e, quando la sua funzione è ultimata, scompare dalla somma della ricchezza di una nazione”. Naturalmente il piano di Keynes era tutt’altro che semplicistico ed egli, nelle sette versioni presentate, ne affrontò le varie complessità, anche per rispondere alle obiezioni che venivano dai suoi numerosi critici.

E’ possibile pensare un sistema del genere attualizzato come forma di superamento dell’euro? Ovvero passare da una moneta unica a una moneta comune? Farlo in un Europa collocata in un contesto mondiale ove il peso della finanza è molto superiore che ai tempi di Keynes? Diversi spunti emersi negli ultimi tempi nel dibattito teorico sembrano indicare di sì. Oltre quelli già ricordati, è bene tenere presenti i lavori di autori tra noi meno noti, ma non meno significativi, come ad esempio Steve Keen, professore a Sidney, che si qualifica come postkeynesiano particolarmente influenzato dalla riflessione di Hyman Minsky.

Ma soprattutto qualche esperienza embrionale che va in questa direzione, o almeno vi allude pur fra molti limiti, è già in atto, come quella del Sucre, unità di conto in vigore per gli scambi fra i paesi che compongono l’Alba (Alianza bolivariana para America latina y el Caribe, di cui fanno parte Venezuela, Cuba, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, Grenadine). Anche nella storia dell’Europa si hanno esempi pregressi cui potere guardare con rinnovata attenzione, sia per gli elementi positivi che negativi, come quella dell’Unione europea dei pagamenti, una sorta di camera di compensazione, che operò tra il 1950 e il 1958 aiutando la ricostruzione postbellica e che ebbe non poca influenza sullo stesso ‘miracolo economico italiano’, ove raggiungemmo punte di sviluppo mai più conosciute nei decenni successivi.

Sulla scorta di questo bagaglio di teorie e di ricerche, di esperienze anche parzialissime e di primi tentativi, i tempi sono maturi perché la sinistra avanzi una proposta su questo tema e possa anche in questo modo caratterizzare la propria presenza nella stessa campagna elettorale per il rinnovo del parlamento europeo del prossimo anno. Ma soprattutto per portare a fondo la critica all’economia monetaria di produzione e alla sua esasperata dimensione finanziaria che costituisce la caratteristica del capitalismo contemporaneo. Il che non significa certo progettare ingenue forme di cancellazione del denaro o di ritorno all’economia del dono e del baratto, ma pensare, come dice Fantacci, di “istituire un denaro destinato ad annullarsi”, ovvero, aggiungo, tale che esaurisca interamente la sua funzione nel proprio valore d’uso.

 

di Alfonso Gianni

http://temi.repubblica.it/micromega-online

 Una versione più ampia di questo articolo uscirà nel n.28 della rivista “Alternative per il Socialismo”, nelle principali librerie a fine settembre 

Scritto da Redazione

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