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La Svizzera, l’uscita dall’euro e le conseguenze per l’Europa

 

“Però, nèh! Che strano paese la Svizzera” dice a un certo punto Tartarino di Tarascona in uno dei tre libri dedicati alle sue mirabolanti avventure da Alphonse Daudet. Di rimando il suo interlocutore, Bompard: “La Svizzera non esiste, non esiste affatto … non è oggi che un gigantesco Kursaal, aperto fra giugno a settembre, un casinò panoramico, dove si viene da tutte le parti del mondo per divertirsi, sfruttato da una Compagnia ricchissima, ricca a centinaia di milioni di miliardi, con sede a Ginevra e a Londra”. Potenza della letteratura. Un simile quadro, con qualche aggiustamento, avrebbe potuto essere attuale almeno fino a pochi giorni fa. 

Con la differenza che la Svizzera esiste eccome. Tutti gli esportatori di capitali, a cominciare da quelli nostrani, lo sanno fin troppo bene. Infatti il piccolo paese alpino ha funzionato, durante questa crisi tuttora in corso, da ricettacolo di capitali, desiderosi di convertirsi in valute considerate fino a poco fa un rifugio sicuro. Tra queste primeggiava il franco svizzero. In particolare questo è accaduto durante il 2011 ed ha provocato un apprezzamento fuori dal comune della valuta elvetica rispetto all’euro. La Banca centrale svizzera finché ha potuto ha cercato di porvi rimedio, fissando un tetto (1,20) al cambio del franco con l’euro. Ma tale intervento non poteva avere lunga durata. Soprattutto in presenza di nuove turbolenze sui mercati finanziari, fra le quali ha pesato considerevolmente l’approfondirsi della crisi russa – in particolare dopo le sanzioni decise in seguito alla guerra civile etereo diretta in Ucraina – che spingeva ingenti flussi di capitali ad abbandonare l’area del rublo ed a rifugiarsi tra le Alpi svizzere. 

L’imminente decisione della Bce di procedere all’acquisto dei titoli di stato – ma sarà importante valutare il come -, il famoso Quantitative easing, ha fatto da detonatore e ha indotto la Bcs a rompere ogni indugio. Questa si è resa conto che non avrebbe più potuto perseguire una politica di sottovalutazione della moneta nazionale e di continuare ad acquistare valuta straniera, malgrado la possibilità di stampare liberamente i franchi, accumulando così enormi riserve valutarie, sproporzionate rispetto al peso effettivo economico del piccolo paese centroeuropeo. 

Gli effetti della decisione delle Banca centrale svizzera non hanno tardato a farsi sentire in altri paesi europei. E’ il caso della Danimarca, ove la Banca centrale ha tagliato il costo del credito di 0,15 punti percentuali per difendere a tutti i costi – ma non si sa con quanta efficacia – il cambio della corona sull’euro. Le due situazioni sono obiettivamente diverse, ma hanno un punto di analogia nell’essere entrambe sospese alle decisioni che nelle prossime ore assumerà la banca centrale europea e nel contempo nell’evidenziare i limiti dei poteri delle banche centrali nazionali nella governance dell’economia. Il fatto che ciò diventi ancora più chiaro in paesi di piccole dimensioni, per quanto la Svizzera sia uno snodo decisivo nel sistema finanziario mondiale, è ancora più indicativo della virulenza degli eventi indotti dalla globalizzazione dei mercati finanziari e dalle guerre monetarie in corso. 

Del resto gli storici dell’economia – ne parla anche Gianni Toniolo sul Sole24Ore – ci ricordano che il ministro delle finanze russo Vysnegradsky ebbe a dire allo Zar Alessandro III: “Vostra Maestà è l’uomo più potente della terra eppure non è in grado di alzare di un solo copeco il valore del rublo alla borsa di San Pietroburgo”. E certamente né i capi di governo della Svizzera, né tantomeno quelli della Danimarca possono essere annoverati tra i più potenti della terra. In realtà qui si sconta una semplice verità, più volte affermata, dal suo punto di vista, dallo stesso Mario Draghi, cioè che la politica monetaria non può tutto. 

Da ciò possono derivare alcune semplici lezioni sulle quali varrebbe la pena di soffermarsi e meditare. 

La prima è che le banche centrali non sono onnipotenti, anche quando stampano moneta; neppure la Banca centrale europea lo è, sebbene molto di più e di meglio potrebbe fare modificandone radicalmente la mission iscritta nei Trattati della Ue; o, meglio ancora, la politica monetaria in quanto tale sbatte contro limiti insuperabili se ad essa non si fa ancella di una corretta politica economico-produttiva-sociale complessiva. In altre parole ancora: è la politica, in particolare la politica economica, che deve governare la moneta e non viceversa. Il pilastro di tutte le teorie neoliberiste, l’assoluta autonomia della Banca centrale dal Tesoro – introdotto in Italia da Beniamino Andreatta nel 1981 con il famoso “divorzio” fra via XX settembre e Palazzo Koch di via Nazionale – mostra ancora una volta di essere uno dei fattori della moltiplicazione delle crisi, non certo uno strumento di prevenzione e risoluzione. 

La seconda è che nel mondo contemporaneo è sempre più difficile per piccoli o anche medi paesi difendersi in modo soddisfacente nelle “guerre monetarie” sollecitate, se non provocate, dai sommovimenti dei tassi di interesse e dei cambi. Ne avevamo già avuto una prova evidente nella grande crisi del 97’-’98 dello scorso secolo, quando le tigri asiatiche furono messe in ginocchio dalle manovre speculative scatenate contro la divisa monetaria thailandese, che, a loro volta, ingenerarono un’ampia oscillazione delle altre valute asiatiche che fino a quel momento avevano goduto di una consistente sopravvalutazione. In poco tempo la crisi coinvolse in pieno la Russia per approdare poi al lontano Brasile, la cui moneta, il real, venne posto in condizioni di libera fluttuazione. 

La terza è che perseguire oggi la strada di una fuoriuscita di singoli paesi, ad esempio quelli mediterranei, dall’euro, ritornando a monete nazionali comunque mascherate, oltre che ad avere conseguenze nell’immediato non calcolabili ma comunque non certo favorevoli alle classi subalterne, li esporrebbe ancora di più ai capricci e alle guerre dei mercati valutari. 

Non solo. Come è stato giustamente osservato, il mito della moneta forte, cui appendere l’orgoglio di una nazione, si è rovesciato nel suo contrario, quella di una moneta debole, come dimostra l’aspirazione attuale ad avere un euro in tali condizioni per favorire le esportazioni. Lo stesso ha fatto la Cina per lungo tempo, vivendo come una sofferta imposizione la relativa recente rivalutazione delloyuan. Il cambiamento di senso nell’opinione pubblica, e non solo nei ristretti circoli finanziari, è notevole, anche se da pochi rimarcato a dovere, ed ha un sapore addirittura epocale. Anche questo aspetto è parte della crisi irreversibile dello stato-nazione, anche se questa procede in modo diseguale, e qualche volta contradditorio, sulla scena mondiale. 

Ma allora si potrebbe introdurre, partendo da questa vicenda, una quarta riflessione ancora più ampia ed ambiziosa. Non è forse giunto il momento di ragionare in termini veramente globali, purché multipolari e tendenzialmente egualitari anche in campo monetario? Se si vogliono evitare guerre monetarie sempre più accese, che possono diventare anticamera di guerre tout court; caos incontrollabili nei cambi e nei tassi di interesse; se si vuole introdurre attraverso regole nuove nell’economia un fattore di pace a livello mondiale, bisogna accogliere l’idea della riconvocazione di una nuova Bretton Woods, che, come la famosa conferenza dei paesi vincitori della Seconda guerra mondiale tenutasi nel 1944, cerchi di porre un po’ di ordine nei mercati valutari. Magari riattualizzando la famosa proposta di Keynes, del bancor, ovvero di una divisa monetaria comune valida come unità di conto a livello internazionale. Si raccoglierebbe così il meglio dell’esperienza della vecchia Bretton Woods, scartandone il peggio, cioè il primato mondiale di una moneta di un solo stato: il dollaro. 

Utopie? Certo le condizioni politiche per una simile operazione per ora non si vedono. D’altro canto se così si prosegue non solo l’euro è destinato a implodere, ma la guerra tra le monete che si scatenerà sulle sue soglie potrà essere foriera di guerre vere non più solo locali, con conseguenze distruttive per tutti inimmaginabili nella loro portata. 

Cominciamo a muoverci in Europa in questa direzione, risolvendo il problema del debito sovrano attraverso una sua ristrutturazione e una sua europeizzazione. Come proporrà Syriza dopo la più che probabile vittoria nelle imminenti elezioni greche. La Germania è contraria? Sì, ma anch’essa deve fare i conti con i segnali più che espliciti di crisi del suo modello economico neomercantile. E sono ormai in diversi, tra gli intellettuali e gli operatori economici tedeschi – assai meno tra i politici compresi quelli di parte socialdemocratica – ad avere percepito la necessità di una svolta nel più grande paese europeo. 

di Alfonso Gianni

da MicroMega online

Scritto da Redazione

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