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Cuffie & Pannolini, il nuovo libro di Marco Giglio

Dall’estrema periferia di Palermo fino ad arrivare a sfiorare le alpi piemontesi. Cuffie e Pannolini (youcanprint.it, 2014) è un racconto a cuore aperto, senza censure, di una vita costruita piano piano, su basi precarie. Tanti, troppi lavori in nero e poi il “call-center piu’ grande d’Italia”, un contratto a progetto, un sogno che si realizza, due bambine ed una vita di provincia fatta di cose semplici.

La storia di tanti ragazzi e ragazze che adesso sono donne e uomini con famiglia e figli a cui è stata data la possibilità di sognare con un part-time. Un sogno turbato dalla Delocalizzazione all’estero, dalle gare al massimo ribasso, dalla minaccia che un giorno, anche quel poco, possa essere spazzato via.

Abstract

«Ma dove sono tutti?» se lo chiedono pure i gatti, abituati da sempre ad un viavai frenetico di gente matta con la cuffia in testa per quattro, sei, otto ore al giorno. Un turn-over di gente, ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni l’anno. Niente pause. Mai una chiusura. Tranne oggi.

Il silenzio in via Porcellini è talmente irreale che suscita timore, preoccupazione, allarme, insicurezza. Sacrosanta paura.

Riesco a vedere le strisce del parcheggio (senza le triple file) e le strade sembrano enormi, talmente grandi da togliermi il fiato. Mi gira la testa ma tutto è fermo, immobile, putrido e stagnante.

Verso il cielo svetta un palazzo freddo, illuminato da qualche monitor e dalla luce di sicurezza, sembra solo freddo silicio, un corpo ancora caldo che chiede degna sepoltura.

Io quei palazzi li ho visti costruire sotto la montagna su cui giocavo insieme ai miei cugini.

Quand’ero piccolo su quell’ammasso di terra ci andavamo a cercare i grilli, li mettevamo in mano e li sentivamo frinire.

Il loro suono ai nostri occhi li rendeva esseri quasi magici. La sera potevamo vedere le lucciole girare qua e là come in una danza ordinata, un rituale quasi sacro.

Con le bici e le rotelle appena tolte, si scendeva veloci verso il buio, vento in faccia, sempre più giù nei box al di sotto dei palazzi: lì trovavi paure brutte come la fame, con le sembianze di cani, diavoli ed esseri terribili. Paure di bambini, paure inventate che facevano sorridere. Una volta mio cugino mi disse di averci visto pure un alieno a tre teste.

(…)

Quando risbucavi dall’altro lato, prima di arrivare, pedalando nel buio, fissavi solo quel puntino bianco, la famosa luce in fondo al tunnel, che diveniva sempre più chiara e sempre più grande. Senza rendertene conto una volta risalito il dosso, e solo dopo che gli occhi si erano riabituati alla luce, vedevi la montagna di detriti con la terra coperta di erba alta e i classici fiori gialli.

Sembrava di essere sbucati quasi in un altro mondo.

Sarebbe stato da pazzi supporre che prima o poi, proprio lì, sarebbero sorti un complesso condominiale e una miriade di uffici targati KarmaCall S.p.A.

Adesso, dopo trent’anni, dal sesto piano del mio ufficio, se guardo verso l’orizzonte sento solo il vento, un vento nuovo che proviene dal mare con dentro bandiere, colori, voci, vite.

Sono le voci, le mani, gli occhi, le anime di quelli che, adesso, i bambini, li tengono per mano. Sono padri e madri di famiglia, tutti ormai sulla quarantina, con paure dai nomi strani: mutuo, affitto, finanziamento… mostri che non si vedono, che si placano e si saziano con i nostri stipendi part-time e che fan venire la pelle d’oca se li lasci digiunare anche solo un giorno. Anch’io ho paura.

Ho paura di veder cadere tutto quello che ho costruito con difficoltà giorno per giorno per dieci anni. Ho paura che i disegni di mia figlia, quelli che ho attaccato al frigo con le calamite, cadano. Ho paura che volino via verso un’altra nazione insieme alle chiamate a cui non risponderemo più.

Ho paura che il vento possa cambiare e che la ruota possa cominciare a girare al contrario. Ho paura ad avere paura.

Per questa ragione scrivo, affinché non si dica, un domani:noi non ne sapevamo nulla. Tutti devono sapere. Tutti devono conoscere la mia e la nostra storia…

 

Marco Giglio è nato a Palermo nel cuore del “Capo”,poi ha fatto il “salto” verso San Filippo Neri, che tutti pero’ conoscono come Zen. Sì, proprio quei posti che non visita nessuno, che sembrano usciti da una fiction o dall’ennesimo film di mafia. Adesso vive in un piccolo paese di provincia.
“Per vivere ho fatto di tutto – dice – ed adesso volente o nolente mi ritrovo con una cuffia in testa, due figlie e tanta voglia di raccontare qualcosa. Qualcosa su di me”.

 

Scritto da Redazione

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